Davide non è riuscito nell’impresa di battere Golia, ma, ad onta di un 3-1 finale piuttosto bugiardo, è giusto chiedersi se vi fosse un Davide in campo all’Olympiastadion di Berlino. Perchè il Barcellona ha vinto, come da pronostico, la sua quinta Champions League ( e fanno quattro successi negli ultimi 10 anni, a fronte di altri sei club vincitori tutti una sola volta, Real compreso) e, con essa, ha realizzato il secondo triplete della propria storia, unica squadra peraltro capace di farlo per due volte, ma la Juventus non solo non ha sfigurato al cospetto dei fenomeni in blaugrana ma ha disputato una signora partita, senza limitarsi ad una mera resistenza, arrivando persino a mettere paura ai catalani, in palese imbarazzo dopo il momentaneo 1-1.
L’illusorio pari di Morata
Orgoglio bianconero sì, ma anche qualità tecnica nelle giocate pur in una serata in cui sostanzialmente è venuto meno l’apporto del faro della Vecchia Signora, Carlos Tèvez, uscito surclassato nel duello a distanza con il connazionale ed ex nemico Leo Messi. Il Barcellona, al netto di un episodio da sliding door come il rigore non fischiato per vistosa cravatta di Dani Alves su Pogba, prologo del 2-1 di Suarez che ha, di fatto, reindirizzato verso la Catalogna una finale la cui inerzia era già girata una volta, ha meritato di alzare la Coppa dalle grandi orecchie, basti pensare alle almeno tre autentiche prodezze inanellate dal solito, eterno Buffon (oltre alle tre reti incassate e al gol giustamente invalidato a Neymar), mentre non si ricordano interventi di particolare difficoltà compiuti dal suo dirimpettaio, il tedesco Ter Stegen. Oltre al consueto dominio territoriale, ma questo non fa testo nè notizia e sulla funzionalità al risultato di un possesso così esasperato sono già stati spesi fiumi d’inchiostro tali da riempire botti.
La Juve, però, è andata ben al di là di un’eroica resistenza: ha difeso sì, è ripartita quando ha potuto anche, ma non solo. ha giocato anche a calcio. Non da lustrini e paillettes come vangelo barcellonista vuole, ma efficace e pratico. Con il paradosso che, invece, proprio il tanto ermetico pacchetto difensivo bianconero ha parzialmente steccato almeno nei turbolenti venti minuti iniziali, peraltro gli unici (assieme ai primi dieci minuti della ripresa) di grande dominio blaugrana. E non si commette peccato di sciovinismo se si ammette che, sull’1-1, sembrava più vicino il momento del colpo definitivo di Madama piuttosto che un altro capitolo dell’MSN show.
Il destino, però, sempre piuttosto crudele con la Juve nell’appuntamento decisivo (con questa, fanno 6 sconfitte in finale a fronte di sole 2 vittorie ed è la quarta batosta consecutiva), aveva in serbo un finale decisamente alternativo.
Giusto, quindi, tributare i dovuti peana alla squadra di Luis Enrique, un tecnico forse venuto da noi ancora un pò acerbo ma che ha trovato un ambiente (e, diciamolo, del materiale umano) molto più impreparato di lui. Altrettanto doveroso complimentarsi con la truppa di Allegri che solo sfiorato l’ebbrezza di un suo primo storico triplete. Ma che, delusione a parte, esce, se possibile, da questa sconfitta con un’immagine europea addirittura rafforzata. Il cielo, stavolta, non è stato azzurro sopra Berlino e neppure bianconero ma ha potuto ammirare, oltre agli addii di due geni del calcio come Xavi e Pirlo, la compiuta metamorfosi di una squadra partita per superare i gironi e arrivata alle porte del paradiso. Con l’intenzione di tornare a bussarvi già l’anno venturo.
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