I quattro italiani rapiti in Libia nei giorni scorsi sarebbero stati fatti scendere sotto la minaccia delle armi dalla macchina a bordo della quale si trovavano, costretti a lasciare i telefoni cellulari e “portati in una zona desertica dove è facile trovare nascondigli”. A sostenerlo è il quotidiano online libico Akhbar Libya 24. Peggio sarebbe andata all’autista, “legato e abbandonato nel deserto”.
Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla – quattro dipendenti della Bonatti, società con sede a Parma che si occupa di costruzione e manutenzione di impianti energetici – sono stati sequestrati domenica scorsa nei pressi di Mellitah, circa 60 km a ovest di Tripoli e meno di 80 a est della frontiera con la Tunisia, da dove provenivano. Da Mellitah parte il metanodotto sottomarino Greenstream, che scarica in Sicilia circa 10 miliardi di metri cubi di gas l’anno.
Sulle responsabilità del loro sequestro, però, non c’è ancora nessuna certezza. L’ipotesi che in queste ore rimbalza con più insistenza è che siano stati rapiti da trafficanti di migranti, come rappresaglia nei confronti degli sforzi del governo italiano contro la tratta di esseri umani, o forse per scambiarli con scafisti detenuti in Italia.
Il governo di Tripoli, invece, sostiene che siano stati rapiti da emissari del Jaish al-Qabail (“Esercito delle tribù”), la formazione paramilitare composta da arabi e berberi alleata con il generale Khalifa Haftar e con l’altro governo, quello riconosciuto dalla comunità internazionale e insediato a Tobruk.
“Le forze della diplomazia, dell’intelligence e della sicurezza stanno lavorando”, assicura il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ma per riportare a casa i quattro serviranno “prudenza, riserbo e molto valore”.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano non si sbilancia: “Non credo che possiamo escludere una pista, ma facciamo lavorare chi ha titolo a farlo e a farlo nel silenzio”. L’unica ipotesi che il Viminale esclude categoricamente è che il governo stia trattando con gli scafisti.
Intanto Alaa al-Queck, portavoce di Fajr Libya (“Alba della Libia”), la coalizione di milizie filo-islamiste che controlla di fatto la capitale Tripoli e la regione dove sono stati rapiti i nostri connazionali, ha smentito con forza l’ipotesi che dietro il sequestro ci possa essere il suo gruppo. Nello stesso tempo, però, il portavoce afferma di sapere con certezza “che gli italiani si trovano nel sud-ovest e che entro 10 giorni saranno liberi”. “Ignoriamo i rapitori e dunque non ne conosciamo il motivo del gesto, ma quando lo sapremo lo riveleremo”, ha aggiunto al-Queck.
Sull’argomento si è espresso anche Khalifa al-Ghweil, succeduto a Omar al-Hasi come primo ministro nel governo di Tripoli, convinto che la responsabilità del sequestro non sia degli scafisti: “Piuttosto crediamo si tratti di criminali che vogliono turbare le relazioni che vogliamo instaurare con l’Italia”.
“Quello che so – ha aggiunto il capo di governo – è che questi quattro italiani arrivavano dalla Tunisia per rientrare nello stabilimento dalla tangenziale Atuila, che porta alla strada principale ad ovest di Sabrata e in quel punto sono stati rapiti”.
Per completare la ricostruzione di Al-Ghweil, però, manca ancora un elemento: “Devo sottolineare la riluttanza del governo italiano a collaborare con noi e la sua debolezza nel combattere il terrorismo e i criminali. Questo ha fatto sì che i criminali trovassero un ambiente favorevole per espandersi. Noi non abbiamo mezzi e l’Italia non ha fatto niente per aiutarci a combattere il terrorismo in Libia”, ha sostenuto il premier. “Pertanto, colgo questa occasione per rinnovare il mio invito al governo italiano per collaborare con il nostro governo di salvezza nazionale e non con l’altro. Soprattutto per la lotta al terrorismo e la lotta all’immigrazione clandestina”.
Filippo M. Ragusa
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