Riprendere a costruire colonie in Cisgiordania mette a rischio il processo di pace fra israeliani e palestinesi. Lo sostiene l’Alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, in una nota pubblicata ieri: “Israele deve dimostrare non solo con le parole ma anche con i fatti l’impegno a perseguire la creazione di due Stati”.
Intanto, però, il governo di Benjamin Netanyahu ha appena approvato la costruzione di trecento alloggi nell’insediamento di Beit El, letteralmente a pochi passi da Ramallah, sede nominale del governo dell’ANP.
Questo mentre un rapporto di Amnesty International ha riacceso le polemiche sulla campagna militare israeliana dell’estate scorsa a Rafah, nella Striscia di Gaza. Stavolta la condanna è toccata a Tel Aviv – il rapporto “non esclude” che gli israeliani nella Striscia abbiano commesso “crimini di guerra” – e il ministero degli Esteri dello Stato ebraico, diretto dal premier Netanyahu e dalla sua fedelissima vice Tzipi Hotovely, l’ha accolta con le consuete accuse di parzialità.
Secondo il dicastero l’indagine sarebbe “lacunosa nella metodologia, nella ricostruzione dei fatti, nelle analisi e nelle conclusioni”. La reazione è la stessa invocata da Hamas quando Amnesty, lo scorso maggio, si era occupata degli “abusi orrendi” commessi nello stesso frangente dal movimento islamista che governa di fatto la Striscia, “con l’intento di disseminare la paura” fra la popolazione civile.
Oggi a Beit El si è sbloccato lo stallo sulla demolizione di due edifici mai abitati, costruiti dai coloni su terreni tecnicamente appartenenti a privati palestinesi, ma requisiti decenni fa per “motivi di sicurezza”. Una volta dimostrata l’infondatezza di questi motivi, la Corte suprema israeliana ne aveva ordinato lo smantellamento, ma il suo pronunciamento era stato subito attaccato dai coloni.
A loro si sono aggiunti i ministri dell’Economia, Naftali Bennett (Focolare ebraico) e del Turismo, Yariv Levin (Likud), prontamente accorsi a manifestare con loro in Cisgiordania.
In altre parole, a una vicenda già di per sé aggrovigliata si è intrecciato anche lo scontro istituzionale a più parti, che vede il governo in lotta con il potere giudiziario e contro l’apparato di sicurezza.
A Beit El un gruppo di manifestanti è arrivato anche allo scontro fisico con i militari, stretti fra l’esigenza di mantenere l’ordine e le richieste dei coloni, che a Tel Aviv trovano la sponda di molti dei componenti più influenti del governo.
Lo stesso copione si è ripetuto su scala ridotta in un altro insediamento nel nord della Cisgiordania.
Pochi giorni dopo gli scontri avvenuti sulla Spianata delle Moschee fra polizia israeliana e militanti palestinesi, la tensione politica non dà insomma il minimo segno di doversi allentare.
Oltretutto, quella che Hamas getta sul fuoco non è acqua. In difficoltà entro i labili confini nazionali, dove il governo di unità nazionale con Fatah non decolla, e isolata all’estero – il governo militare egiziano le contesta l’affiliazione ai Fratelli Musulmani, messi fuorilegge dopo il colpo di Stato, e l’Arabia Saudita ha appena rimandato a casa con un pugno di mosche il negoziatore Khalid Meshaal – la leadership di Hamas ha ripreso a organizzare campi estivi di addestramento paramilitare per i giovani di Gaza.
Nel resto dei territori occupati, il movimento islamista ha indetto per domani una “giornata della collera” per manifestare indignazione contro l’“invasione” della moschea al-Aqsa e contro i progetti, rilanciati nelle ultime ore da rabbini vicini al governo, di togliere ai musulmani l’esclusiva del culto sulla Spianata. All’atto pratico, dopo la preghiera in moschea di mezzogiorno, cortei di palestinesi sfileranno in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est.
F.M.R.
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