L’eliminazione della Juve con il Bayern a prescindere dall’esito del tentativo di “remuntada” della Lazio con il Fenerbahçe stasera all’Olimpico, ci pone dei doverosi interrogativi che esulano dalle vicende della “Vecchia Signora” e investono tutto il nostro calcio. Quando una società non consegue l’obiettivo prefissato o, come nel caso della società di Corso Galileo Ferraris, si trova a fare i conti con una realtà più grande, competitiva e organizzata della propria, le prime reazioni dell’ambiente tendono a convergere nella direzione di un rafforzamento del parco giocatori sul mercato. E, per chi coltiva sogni più ambiziosi, la richiesta è sempre volta ad acquisire il cosiddetto “top player”. Ossia, il campione affermato, in grado, da solo, di mutare i destini della propria compagine. Certo, ogni tifoso, di qualunque squadra e in qualunque città, ha il diritto di coltivare il sogno di avere tra le fila dei propri beniamini un fuoriclasse che possa accendere gli entusiasmi. Non fosse che stiamo attraversando uno dei momenti più difficili nella storia dell’economia planetaria sarebbe un desiderio più che legittimo ma non è questa la direzione imboccata dal calcio internazionale oggi. Una direzione condizionata pesantemente dalla congiuntura economica certamente, ma che tradisce un’idea di fondo del calcio molto diversa da quella che abbiamo dalle nostre parti. La policy societaria all’estero è quella di costruirsi il campioncino in casa propria, attingendo alle risorse del vivaio o di andarlo a individuare, ancora acerbo magari, sondando mercati, un tempo anche poco frequentati.
Sicuramente in questo senso si muove non solo il Bayern, ma tutti i clubs della Bundesliga. Altrettanto avviene nella Premiership inglese. Nella Liga spagnola un po’ meno, ma solo perché tutto il movimento iberico finisce con il vivere all’ombra dei due grandi egemoni del calcio locale, Real e Barça. Ma già tra i due clubs le differenze sono profonde. Alla “Casablanca” sono lontani i tempi della “quinta del Buitre” quando per rifondare una squadra che veniva da anni di delusioni ci si affidò a una nidiata di ragazzini cresciuti per lo più nella succursale del Castiglia. Poi, venne l’epoca degli “Zidanes y Pavones” sotto la prima gestione Perez. Almeno si guardava non solo ai campioni affermati e costosi ma anche ai “pavones”, per l’appunto (e il giocatore da cui derivava la seconda parte dello slogan, Pavòn, non è che abbia avuto una carriera folgorante). Ora, nel Perez II, tutto è affidato ai soli fenomeni d’importazione (e al credito illimitato che le banche garantiscono alle “merengues”, motivo di apertura di un’inchiesta per presunti aiuti di Stato). E anche Raùl ha dovuto cambiare aria. Sulle meraviglie della “cantera” del Barça, invece, sono stati già spesi fiumi d’inchiostro. In ogni caso, in Spagna come in Germania o in Inghilterra si è da tempo affermata una filosofia che, prescindendo dalle possibilità economiche di ciascuno, punta forte su un gioco propositivo. In Italia, nonostante la rivoluzione sacchiana di fine anni ’80, ancora no. Un tempo, tra la fine degli anni ’80 e per tutta la decade successiva, eravamo diventati i dominatori assoluti nelle allora tre competizioni europee per clubs (c’era ancora la Coppa delle Coppe). Ma avevamo due frecce molto acuminate al nostro arco: 1) eravamo i più ricchi (sempre Barça e Real permettendo) e depredavamo indisturbati tutto il mercato planetario della pedata; 2) eravamo tatticamente i più preparati (e tutt’ora i nostri tecnici godono di grande stima all’estero) ma puntavamo su un canovaccio che, Milan di Sacchi a parte, ci vedeva molto accorti e maestri nella distruzione del gioco altrui. Per offendere, poi, bastava gettarsi negli spazi che rimanevano sguarniti. Era una filosofia che faceva premio. Un po’ come avvenuto nel tennis dopo l’ascesa di Borg. Andare avanti, a rete era divenuto un azzardo che non ripagava. Si diveniva bersagli dei passanti altrui, più che attaccanti. Ora, pur essendosi estinti i rappresentanti del serve&volley, se non si è in grado di produrre, a partire dal servizio per andare ai due fondamentali, potenza e velocità supersoniche in grado di scardinare il gioco dell’avversario, con mera regolarità e passanti non si vince neanche più un set. Nel calcio è avvenuto lo stesso, e senza voler scomodare i picchi di eccellenza toccati dal Barcellona di Guardiola, è un altro il modello dominante: quello del calcio aggressivo pur mantenendo un’adeguata copertura grazie al gioco corto. Non è solo un discorso estetico. Come tutti i modelli che si diffondono, la sua affermazione reca l’imprimatur dei risultati. La Juve, lo ha dimostrato anche con il Bayern, è l’unica squadra italiana che si sta muovendo in questa direzione e non è un caso che domini in lungo e in largo in Serie A, ma il confronto con la miglior squadra di Germania ha evidenziato che il gap non è tanto di talento individuale (che pure tra le fila bavaresi scorre a fiumi) ma di organizzazione del collettivo. Pensare di colmarlo rincorrendo un top player non sarebbe una strategia efficace. In questo, la Juve è poco aiutata dal contesto nazionale in cui si muove domenicalmente. Il nostro campionato resta, infatti, il più difficile perché le sue squadre rimangono le più arcigne. Ma, se rimaniamo dei maestri nel distruggere il gioco altrui e nell’inaridirne le fonti, manca la propensione a costruirne uno proprio. E intestardirsi nella ricerca del campione già affermato non è una via percorribile per due buone ragioni: 1) non siamo più i “paperoni” della situazione e i soldi (non moltissimi, per la verità) che circolano, circolano altrove; 2) non siamo un mercato appetibile per un campione anche per il nostro livello mostruoso di tassazione. Quali conclusioni trarre da questa situazione? Se non si vuole perdere ulteriore tempo nei confronti dell’èlite del calcio europeo (Real, Barcellona, Bayern, Manchester United) cui si stanno aggiungendo i “nuovi ricchi” ( Psg, Manchester City, in attesa che Abramovich torni a spendere e spandere al Chelsea) dobbiamo pensare piuttosto a investire nel settore giovanile e nell’attività di “scouting” di giovani talenti anche in campionati esteri di minor richiamo. Un esempio di gestione “illuminata” in tal senso, lo ha fornito l’Udinese di Pozzo. Che i top players li ha formati in Friuli.
D.P.
Napoletano, 44 anni, giornalista professionista con 17 anni di esperienza sia come giornalista che come consulente in comunicazione. Ha scritto di politica ed economia, sia nazionale che locale per diversi giornali napoletani. Da ultimo da direttore responsabile, ha fatto nascere una nuova televcisione locale in Calabria. Come esperto, ha seguito la comunicazione di aziende, consorzi, enti no profit e politici. Da sempre accanito utilizzatore di computer, da anni si interessa di internet e da tempo ne ha intuito le immense potenzialità proprio per l'editoria e l'informazione.
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