Lech Walesa faceva il doppio gioco? Le accuse ai danni dell’ex presidente della Polonia – eroe delle rivoluzioni democratiche che misero fine all’esperienza comunista in Europa, provocando il crollo dell’URSS – minacciano di riscrivere la storia recente.
Negli anni ’70 Walesa, che non aveva ancora fondato Solidarnosc, sarebbe stato un informatore della Sluzba Bezpieczenstwa (SB), la polizia segreta del regime polacco. Lo sostiene l’IPN (“Istituto per la memoria nazionale”), un centro studi vicino alla destra nazionalconservatrice del presidente Jaroslaw Kaczynski. Lo proverebbero carte private di Czeslaw Kiszczak, l’ultimo ministro dell’Interno della Polonia comunista, morto lo scorso novembre.
Walesa respinge tutte le accuse: “Non possono esistere documenti che provengono da me. Lo dimostrerò in tribunale”.
Secondo l’IPN sarebbe stata la vedova di Kiszczak a consegnare i documenti compromettenti in cambio di denaro. Lo ha spiegato in una conferenza stampa il presidente dell’istituto, lo storico Lukasz Kaminski. Tra le carte ci sarebbero foto, ricevute di pagamenti e la trascrizione di una conversazione avvenuta nel 1974 fra “Bolek”, un nome in codice, e un agente dei servizi segreti russi. E un biglietto scritto di suo pugno dal generale spiegherebbe l’arcano: “Bolek è Walesa”.
L’ex presidente, premio Nobel per la Pace nel 1983, è stato già accusato altre volte di essere un informatore pagato dai comunisti per spiare dall’interno i movimenti dissidenti, ma le accuse contro di lui non sono mai state provate. Anzi, nel 2000 la Corte d’Appello di Varsavia ha stabilito che non aveva mai collaborato attivamente con il regime, e che la documentazione fornita dai suoi accusatori era “materiale falsificato”.
Due membri dell’IPN hanno riacceso il dibattito pubblico nel 2008 in un libro con 130 pagine di documenti inediti. Walesa nel 2009 si è spinto fino a citare in giudizio Lech Kaczynski, allora presidente della Repubblica ed esponente del partito nazional-conservatore PiS (“Diritto e giustizia”), morto l’anno successivo in un incidente aereo.
In realtà, com’è stato osservato in più occasioni, la SB produceva documenti falsi in quantità (falszywka) per poterli usare al momento opportuno come strumento di ricatto, o per rovinare la reputazione di esponenti politici.
Walesa riconosce di aver firmato soltanto una generica “dichiarazione di lealtà” al comunismo nel 1974. Ma si trattava di una pura formalità: era un documento indispensabile per fare attività politica e sindacale sotto l’ombrello del regime. E l’operato di Solidarnosc, il sindacato d’ispirazione catto-liberale fondato da Walesa nel 1980, nei primi anni era tollerato dal governo: sarebbe stato messo fuorilegge solo dopo l’ascesa della giunta di Wojciech Jaruzelski, il generale che decise di stringere le maglie della repressione per evitare alla Polonia un’invasione sovietica come quelle subite dall’Ungheria nel 1956 e dalla Cecoslovacchia nel 1968. Sarebbe stato lo stesso Jaruzelski, anni dopo, ad avviare le trattative con Solidarnosc culminate nella caduta del regime.
Per capire il clima in cui arrivano le nuove accuse contro Walesa, bisogna osservare la Polonia del 2016. Lo scorso novembre è salita al governo Beata Szydlo, un’esponente del PiS. Alla guida del partito ora c’è Jaroslaw Kaczynski, fratello dell’ex presidente Lech.
Lavorando sulla “paranoia nazionale per il comunismo” dell’opinione pubblica polacca, i nazionalconservatori hanno messo in piedi un clima di “caccia alle streghe” per screditare gli odiati liberali, a partire da icone viventi della democratizzazione come Walesa o l’editore Adam Michnik, accusati di avere “il tradimento nel DNA”.
Nel 2007 fu proprio il PiS a varare la legge sulla lustracja, che obbliga i titolari di cariche pubbliche a dichiarare ogni forma di collaborazione con i servizi di sicurezza dell’epoca comunista. Prima che la Corte Costituzionale la bloccasse, il governo aveva provato ad affidare gli accertamenti del caso all’IPN.
Ancora oggi il PiS organizza manifestazioni di piazza contro i liberali con esorcisti alla testa dei cortei. E questa settimana – la settimana in cui il tribunale di Colonia fa chiarezza sui fatti della notte di Capodanno, e riconosce che solo tre dei 58 indagati erano richiedenti asilo – la rivista wSieci (“In rete”) è uscito con il titolo “Lo stupro islamico dell’Europa” e una copertina che raffigura una donna bionda, vestita con la bandiera a 12 stelle, aggredita da mani di uomini di carnagione scura.
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