Dal referendum sulle trivelle nessuno esce vincitore: non cambia nulla per chi ha votato sì (quasi il 90% dei votanti) all’abrogazione della proroga delle concessioni delle piattaforme petrolifere entro dodici miglia dalla costa, perchè non si è raggiunto il quorum necessario (50% più uno) affinchè il risultato fosse valido.
Se ha rappresentato una vittoria politica per il Governo, con un risultato “netto, chiaro, superiore alle aspettative”, dichiara il premier Matteo Renzi; di contro però, il referendum ha puntato i riflettori dei media sulle “lobby del petrolio in Italia”, mettendo in discussione le “scelte energetiche del paese”, affermano i sostenitori del comitato per il SI.
In questa prospettiva, anche se l’affluenza è stata scarsa, i numeri raggiunti che potrebber fare la differenza per l’opposizione (FI-M5S) e la minoranza Dem al prossimo referendum sulle riforme in autunno.
Con quindici milioni di votanti, sottolinea il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, uno dei leader del comitato pro abrogazione, “Abbiamo superato la soglia di 10 milioni di voti che consideravamo necessaria per poter parlare di un successo: il governo dovrà tenerne conto”.
E ora le associazioni del per il sì al referendum sulle trivelle hanno annunciato che presenteranno un ricorso al Ministero dello Sviluppo Economico per chiedere il blocco immediato delle cinque concessioni estrattive entro le 12 miglia.
“Le concessioni sono scadute da anni – ha affermato Enzo di Salvatore, estensore dei quesiti referendari -. La norma prevede che siano prorogati i titoli vigenti, non quelli scaduti. Di conseguenza le aziende petrolifere stanno continuando ad estrarre senza autorizzazione”.
Referendum trivelle: storia di una morte annunciata. “L’Italia ha parlato – ha affermato il presidente del Consiglio – il referendum è stato respinto. In politica bisogna saper perdere”. Ma se il risultato era praticamente certo, la polemica consiste proprio nel fatto che non hanno vinto i no, ma i non so. Che sia stata una scelta di politica consapevole, in virtù delle parole di Renzi e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che spingevano a non andare a votare o che molti abbiano deciso magari di non saperne abbastanza per esprimere un giudizio, la percentuale degli astensionisti ha raggiunto un picco altissimo.
In parte, perchè la questione è veramente molto tecnica: “Volete voi – questo il quesito sottoposto agli italiani – che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ‘Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ‘Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)’, limitatamente alle seguenti parole: ‘Per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale’?”.
In altre parole: La legge di stabilità 2016 ha bloccato le nuove concessioni per estrarre idrocarburi entro il limite di 12 miglia dalla costa. Ma cosa fare con per quelle 88 piattaforme che già ci sono e che fanno capo a circa 31 concessioni, sparse tra l’Adriatico, il Mar Ionio e il mare della Sicilia?
La stessa legge di stabilità 2016 aveva esteso la durata delle concessioni di queste piattaforme per un tempo indefinito, invece che per i canonici 30 anni. I fautori del sì hanno però rilevato numerosi elementi di criticità: in primo luogo, il blocco di nuove concessioni non vieta di costruire nuove piattaforme all’interno di concessioni già esistenti; inoltre, sembra che queste piattaforme producano relativamente “poco” greggio o gas e che siano per la maggior parte molto strutture molto vecchie, come afferma uno studio del WWF, con ben 42 su 88 totali sono state costruite prima dell’entrata in vigore della VIA (procedure di valutazione di impatto ambientale).
Sempre secondo lo studio del WWF, otto sono definite “non operative” e di quelle a gas 31 sono dette “non eroganti”. “Ci chiediamo perché le compagnie petrolifere tengano inattivi così tanti impianti”, dice Fabrizia Arduini, autrice di questo studio insieme a Stefano Lenzi. “Il ministero dello sviluppo economico dovrebbe esaminare la situazione, prima che questi relitti obsoleti collassino nei nostri mari”.
Arduini cita il regolamento offshore emanato dalla Commissione europea nel 2011, il quale “riconosce che il rischio di cedimenti strutturali dovuti al logorio degli impianti è uno dei principali fattori di rischio di incidente. Ed è chiaro – continua Arduini – che un incidente avrebbe conseguenze tanto più gravi se avvenisse vicino alla costa, cioè proprio nella fascia delle 12 miglia”.
La questione delle royalty. Sempre secondo elaborazioni del WWF di dati del Mise (Ministero dello Sviluppo economico), su 53 aziende estrattive, solo otto pagano royalty limitate e sono le più grandi (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana, Eni mediterranea idrocarburi, Società Ionica Gas, Società Padana Energia). Questo perchè non pagano royalty, cioè il pagamento di una somma di denaro per lo sfruttamento di un bene a fini commerciali o di lucro, le prime 50mila tonnellate di petrolio e i primi 80mila metri cubi di gas estratti offshore. È chiaro dunque che alle società estrattive conviene estrarre poco ma per molto tempo.
“Non dobbiamo piangerci addosso: siamo leader nel settore delle rinnovabili – ha affermato Renzi – Saremo a New York per siglare un accordo impegnativo perché vogliamo fare dell’Italia il paese più verde dell’Europa ma per farlo non possiamo sprecare le energie che abbiamo. Il passaggio verso le energie rinnovabili si può fare ma ci vuole tempo”.
P.M.
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