Niente Giochi olimpici di Rio 2016 per la squadra russa di atletica. Il TAS, il tribunale arbitrale dello sport che ha sede a Losanna, in Svizzera, ha respinto il ricorso di 68 atleti russi contro la squalifica collettiva decretata dalla IAAF, la Federazione internazionale di atletica.
Per gli atleti resta la possibilità di presentarsi ai Giochi sotto bandiera neutrale: “Qualora alcuni atleti dimostrassero di rispettare in pieno i criteri stabiliti dalla IAAF, il CIO dovrebbe ammetterli”, si legge nella sentenza.
Dei circa cento che hanno consegnato i documenti necessari, solo due atlete hanno ottenuto il pass: la saltatrice in lungo Darya Klishina e la mezzofondista Yulia Stepanova, che però nel frattempo si è infortunata in modo abbastanza grave ai legamenti di un piede. Dire che la loro decisione non sia stata ben accolta in patria sarebbe un eufemismo. I giornali le hanno accusate di tradimento e hanno fatto paragoni ingombranti, perfino con i nazisti. La Klishina si è guadagnata la wild card perché da anni vive e si allena negli USA, dove i controlli antidoping sono reputati più affidabili. Sulla Stepanova invece pesa la responsabilità delle dichiarazioni – rilasciate tra il 2013 e il 2014 a Hajo Seppelt, un giornalista tedesco, e finite in un documentario trasmesso a fine 2014 – che hanno scoperchiato il vaso di Pandora e gettato nello scandalo la Rusada, l’agenzia antidoping di Mosca. Dopo aver passato qualche mese in Germania, oggi vive anche lei in America, in una località segreta.
Le porte della Federazione internazionale sono ancora aperte agli altri atleti, ammesso che siano pronti a sopportare conseguenze del genere. Ma il TAS avverte: “I tempi per seguire questa strada sono molto stretti”.
Lord Sebastian Coe – leggenda del mezzofondo inglese, oggi presidente della IAAF – non è entusiasta dello sviluppo della vicenda. “Non è il giorno delle dichiarazioni trionfalistiche”, spiega: “Non sono alla guida dell’atletica mondiale per escludere atleti”. Ma “la IAAF ha le sue regole antidoping, e oggi il TAS ha confermato che vanno rispettate”. Poi si è detto grato al Tribunale arbitrale “per aver sostenuto la nostra battaglia contro il doping”.
È di “profondo rammarico”, invece, la reazione di Dmitri Peskov, il portavoce del presidente russo Vladimir Putin. “Il tema della responsabilità collettiva, dal nostro punto di vista, difficilmente può essere accettabile”, ha dichiarato. “Si tratta di atleti che si stavano preparando alle Olimpiadi che non hanno a che fare con il doping, i loro test venivano prelevati regolarmente dalle agenzie antidoping straniere”.
Più battagliero il ministro dello Sport russo Vitali Mutko, che ha accusato il TAS di aver preso una decisione “in qualche modo politicizzata” e priva di “basi giuridiche”. “La Federazione mondiale è completamente corrotta”, ha detto: “Tutto è cominciato con loro, le persone nominate nel primo rapporto della commissione indipendente continuano a lavorare”.
Ora, comunque, Mosca rischia che i suoi atleti vengano esclusi dai Giochi di Rio anche nelle altre discipline. C’è un rapporto della WADA, l’Agenzia mondiale antidoping, che parla chiaro e tondo di doping di Stato: ai Giochi invernali di Sochi 2014, i laboratori russi avrebbero insabbiato le positività ai test degli atleti di casa. L’Esecutivo del CIO aveva fatto sapere di stare “valutando le opzioni legali, confrontando il bando totale degli atleti e il diritto alla giustizia individuale”. E a sfavore della squalifica collettiva giocava anche il fatto che avesse chiesto alla WADA un elenco dei nomi degli atleti trovati positivi, per prendere iniziative disciplinari contro i singoli colpevoli, lasciando porte aperte ai puliti. Ma aveva anche dichiarato di aver sospeso la decisione in attesa della sentenza del TAS.
F.M.R.
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