Napolitano. Ancora lui. Sempre lui, e sempre più nel ruolo di guastatore della politica per conto di quella partitocrazia e di quell’arroganza del potere che hanno fatto precipitare il Paese in una delle crisi più tragiche del dopoguerra. Quel potere che nove anni al Quirinale, ed una vita a cavallo di inciuci e manovre indecenti che nessun inquilino del Colle si era mai sognato di fare (nemmeno il poco rimpianto e faziosissimo Oscar Luigi Scalfaro) non ha mai logorato Giorgio Napolitano. Ed in queste ore, lo stesso ha avuto ancora l’impudenza di suggerire al Parlamento e agli italiani tutti, quello che devono o non devono fare.
L’Italia -ha detto- “perde dignità e rischia di calpestare la Costituzione” nel momento in cui si dovesse scegliere di andare a votare prima della scadenza naturale della legislatura.
“Un colpo alla credibilità del Paese”, “una legge elettorale fatta da quattro leader per calcolo di convenienza…”, “abnorme patto extracostituzionale”. Ma bravo Napolitano. Ha dimenticato i tempi in cui quella stessa Costituzione lui l’ha violata, calpestata e gettata nel water sporco della malapolitica.
Si è dimenticato di aver firmato leggi liberticide come il lodo Alfano e il legittimo impedimento, come gli ha ricordato il leader cinquestelle Alessandro Di Battista. Il presidente emerito dimentica l’aiuto dato all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e all’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, accusati dai giudici di trattare con la Mafia nei momenti più duri dello scontro tra lo Stato e la delinquenza organizzata. Con ingerenze e manovre che in uno stato civile serio avrebbe portato Giorgio Napolitano diritto all’impeachement, lo stesso, avrebbe di fatto garantito la loro impunità di fronte alla legge e ai tanti morti che pure, per quello Stato che lui mal rappresentava, avevano dato generosamente la propria vita.
Dimentica Napolitano di aver prima tramato per far cadere l’ultimo governo Berlusconi per poi passare la mano ad un governicchio senza legittimazione parlamentare messo in piedi da uno spompatissimo Prodi, già ostaggio delle convulsioni all’interno del Pd quando all’orizzonte si profilava l’ombra lunga dei rottamatori guidati da Matteo Renzi.
Non pago di questo, il presidente emerito iniziava la sua lunga stagione di trame e controtrame che avrebbero regalato al Paese tre governi non votati dal popolo ma dalle grandi centrali della finanza e della politica deviata di ispirazione massonica: il disastroso Mario Monti, l’uomo che dalle banche si faceva dare “i compiti da portare a casa”. Poi fu il turno dell’innocuo più che ingenuo Enrico Letta, a sua volta mandato a casa con un semplice “stai sereno” dal rampantissimo giovane ex sindaco di Firenze, prima dei fendenti sotto la statua di Pompeo Magno.
Ma è il caso di dire che Napolitano, con uscite che somigliano sempre più a patetiche boutade politiche destinate ai nostalgici della partitocrazia più becera, ignora i cambiamenti che sono maturati nel Paese soprattutto negli ultimi due anni. I leader politici che hanno deciso di votare la nuova legge elettorale (quella legge che sotto il mandato di Napolitano non si poteva né doveva cambiare perché lui potesse governare indisturbato) rappresentano più dell’80% per cento dell’elettorato. Rappresentare i quattro quinti degli italiani non è una legittimazione democratica? Evidentemente Napolitano rimpiange i tempi in cui convocava al Quirinale i rappresentanti dei partiti e dei poteri forti per decidere se e quando aprire eventuali crisi di governo per presidenti del consiglio senza poteri, nominati da lui ma mai votati dal popolo.
Adesso che, dopo una sentenza disattesa della Corte Costituzionale, finalmente un minimo di saggezza si è fatta breccia per scardinare la ferrea volontà di quanti vorrebbero questo Paese ingessato a vita, ecco rispuntare dalle tenebre della peggiore partitocrazia questo reduce che Di Battista non ha esitato a definire “un rancoroso, garante della Cia, dei Sovietici e del grande capitalismo internazionale…Il massimo responsabile dei disastri che ci sono in questo paese”. Un giudizio severo ma difficile, se non impossibile, da non condividere.
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