Era la primavera del 26 d.C. quando a bordo di una veloce Esareme, probabilmente la Ops, l’Imperatore Tiberio Giulio Cesare Augusto, giunse nell’isola di Capri per rimanervi fino alla fine dei suoi giorni.
Capri era allora una montagna in mezzo al mare, abitata da gente greca longeva, ricoperta di lauri, mirti, aranceti, alti pini. Un isola odorosa di resine, ricca di boschi e di grotte con cinghiali e capre. Un isola che rendeva difficili eventuali attacchi via mare, che non aveva porti ma solo approdi naturali e sorvegliati come quello di Tragara (tra i faraglioni e lo scoglio del Monacone). Un luogo ideale per quel monarca che voleva allontanarsi dal caos di Roma e dai suoi complotti. Andar via per sentirsi lontano e protetto dalle continue ostilità che serpeggiavano nei palazzi romani.
La figura dell’Imperatore Tiberio ha sempre diviso il giudizio degli storici. Ogni responsabilità sulla cattiva fama del sovrano ricade soprattutto su Tacito e Svetonio che puntualmente riportano i pettegolezzi messi in giro dal popolino romano. Negli ultimi anni di vita trascorsi a Capri, Tiberio viene descritto come un mostro crudele in preda alla follia. Un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli, un sadico avvezzo ai peccati di gola, ai vizi e alla lussuria.
Si narra che Tiberio fosse tanto libero in fatto di lascivia che veniva chiamato anche Liberius. I suoi detrattori raccontano di una stanza da lui escogitata con sedili intorno alle pareti, diventata la sede della sua libidine. Un luogo ove faceva condurre greggi di ragazze e di invertiti e li affidava a maestri del vizio che lui chiamava Spintrie. In sua presenza poi li faceva unire a tre a tre, una fanciulla sotto un ragazzo, e questo sotto un altro ragazzo. Ma sono chiacchiere. Autorevoli scrittori antichi quali Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Seneca, Filone e Velleio Patercolo, non accennano minimamente ai suoi vizi, ma al contrario danno di Tiberio un giudizio sostanzialmente positivo: quello di uomo probo, distaccato, con un carattere chiuso, un uomo riservato e tormentato, che ovunque vedeva traditori e spie, ma generoso e con un alto senso dello Stato, attento ai bisogni del popolo romano e delle sue Province. E questo perché Tiberio fu anche un valente generale ( c’è chi sostiene il migliore della sua epoca) che pacificò la Germania e tenne sotto controllo la situazione in Pannonia e Dalmazia. Un Imperatore che seguì scrupolosamente i dettami augustei, che accentuò il potere imperiale nei rapporti con il senato e soprattutto che mantenne la pace ai confini chiudendo per lungo tempo il tempio di Giano. Sta di fatto che l’Imperatore giunto a 68 anni si trasferì a Capri, dedicandosi a trasformarla in un impenetrabile rifugio dorato e profondendo nell’isola ricchezze e tesori inenarrabili. Si dedicò da subito alla costruzione di strade, ville e palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici, e di un nuovo porto , costruito a Marina Grande. Sui punti più elevati e strategici elevò 12 grandi ville dedicate a divinità, ma quella di Giove, Villa Jovis , sul promontorio orientale dell’isola, a 334 metri sul livello del mare, fu il suo capolavoro, e per 10 anni il principale palazzo del governo di Roma. Collocata su una rupe nel luogo più inaccessibile dell’isola, altissima sul mare Villa Jovis era una costruzione che fungeva da palazzo imperiale, da imprendibile fortezza e da pretorio. Con lo stile tipico delle abitazioni signorili romane, arredata con mosaici, statue, marmi e decorazioni, la dimora si estendeva per 7.000 metri quadri ed era formata da enormi terrazze, giardini e ninfei che si allungavano sulle pendici del Monte Tiberio. Una residenza accessibile solo per via terra mediante un angusto passaggio sempre ben controllato da numerosi soldati. Attraverso comunicazioni del Senato, rapporti di polizia, le relazioni dei suoi ministri, la sua rete di spie, e le lettere provenienti da amici e parenti, e grazie ad un faro utilizzato per le comunicazioni con la terraferma, da Villa Jovis l’imperatore controllava ogni cosa. Così lo storico Gregorovius: “Da qui Tiberio vedeva tutto ciò che si svolgeva sull’isola e scorgeva anche le navi che venivano dall’Ellade, dall’Asia, dall’ Africa, oppure giungevano da Roma. Il servizio delle comunicazioni ottiche, che si attuava altresì mediante un codice segreto con fumate di giorno e coi fuochi delle torce di notte, era affidato a uno speciale corpo di vedette. Sulla costa del golfo di Napoli operava poi un sistema di torri costiere per comunicazioni ottiche e di veloci liburne che consentivano all’imperatore di ricevere rapidamente messaggi e d’impartire ordini. Le giornate che Tiberio trascorreva a Capri erano laboriose. Verificava con cura le nuove leggi per Roma, e dal suo studio ogni giorno risolveva i problemi provenienti dalle numerose Province dell’Impero. Appassionato cultore di letteratura e di filosofia, era circondato di grammatici, bibliofili, e calligrafi con cui spesso discorreva, e a cui affidò la cura della biblioteca privata ospitata nel proprio palazzo. L’edificio, era circondato di ninfei e esedre, seguiva l’andamento del terreno, con forti dislivelli superati da numerose scale e scalinate che consentivano di salire di roccia in roccia fino al punto più alto ove era collocata la monumentale loggia imperiale. Una terrazza fantastica con la sala del triclinio e un belvedere che dominavano tutta l’isola, ma soprattutto dove si ammirava lo spettacolo del Golfo di Napoli, una curva che va da capo Miseno, con le isole di Ischia e Procida, fino alla costiera sorrentina, a quella amalfitana e al Cilento. Ed era li che Tiberio trascorreva intere giornate a Capri in profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale, dedicandosi a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa. Sul suo terrazzo Tiberio aveva fatto piantare alberi di lauro, perché riteneva che durante i temporali le folgori non avrebbero colpito le piante di alloro. Dalla sua fantastica loggia imperiale Tiberio lanciò la moda dell’aperitivo, difatti poco prima di sedersi a tavola aveva l’abitudine di bere a digiuno del vino per stimolarsi l’appetito. Sulla sua tavola erano presenti frutta e ortaggi, pere, uva passa, cavoli e cetrioli. Di questi aveva una vera passione, li mangiava con frequenza quotidiana, si era fatto costruire speciali cassette munite di ruote in cui li coltivava, così che in inverno potesse spostare le piante per esporle al sole. Non lontano dalla loggia imperiale, quasi all’improvviso il baratro, una rupe di 300 metri a picco sul mare, chiamata la “ Carneficina del Mostro “ o “ il Salto di Tiberio” ove pare che l’Imperatore vi facesse precipitare le proprie vittime. Gli eventuali sopravvissuti venivano poi finiti in mare da marinai con arpioni e bastoni. A Villa Jovis Tiberio disponeva di numerose camere da letto tutte adorne di statue e di libri, ma di quelli che indicavano le posizioni amorose, come i molles libros scritti dalla poetessa erotica Elefantide. Numerosi anche i dipinti lascivi come quelli di Pausia. Svetonio narra che Tiberio, in una divisione ereditaria, davanti alla scelta tra un quadro rappresentante la fellatio della ninfa Atalanta al re Meleagro, e un milione di Sesterzi, senza indugio scelse subito la pittura e se la mise in camera da letto. E aggiunge che una volta mentre celebrava un sacrificio nei giardini di Villa Jovis, fu attratto da un adolescente che portava l’incenso. Appena terminato il rito lo attirò a sé e subito ne abusò. Passò poco tempo e venne attratto anche dal fratello che era un giovane suonatore di flauto, e abusò pure di lui. Quando poi venne a sapere che i due fratelli si rinfacciavano reciprocamente l’atto vergognoso, per non far torto a nessuno ordinò che si spezzassero le gambe a entrambi. Al centro della villa c’erano le cisterne dedicate alla raccolta dell’acqua piovana usate sia come acqua potabile che come riserva destinata alle terme. L’impianto idrico si estendeva lungo tutto il lato del palazzo, quello destinato a bagno era composto da una serie di cinque ambienti paralleli al corridoio; nel calidarium vi erano due absidi, una con la vasca, un’altra con il bacino di bronzo per le abluzioni. Svetonio ci parla anche di un altra sua idea malsana, quella di disporre in alcune grotte giovani di ambo i sessi, vestiti in costumi di Silvani e Ninfe, giovani sempre pronti ad offrirsi al suo piacere. E prosegue con i suoi divertimenti acquatici. Dice che aveva istruito alcuni fanciullini in tenera età (che chiamava i suoi pesciolini) a giocare con lui in acqua tra le sue cosce mentre nuotava, perché lo eccitassero a poco a poco con la lingua e con i morsi, ad altri, più grandicelli ma non ancora svezzati, pare che desse da succhiare come si trattasse di un seno, le parti naturali del suo corpo. Ma sono chiacchiere non accertate. Invece è certo che l’imperatore amasse fare le abluzioni, soprattutto nella grotta azzurra, dove teneva colte conversazioni e organizzava raffinati conviti. Ne era affascinato. Trasformata in un grandioso e silenzioso ninfeo sorto nel mare, fra giochi di luci e raffinati effetti solari filtrati dall’ azzurro del mare, aveva fatto ornare la grotta di molte statue rappresentanti sirene, tritoni, ninfe, divinità. Opere d’arte ispirate al mondo classico, che applicate alla parete rocciosa, all’altezza del livello marino, apparivano uscite spontaneamente dalle acque. Abbandonata per decine di secoli, la villa venne riscoperta nel XVIII, sotto il regno di Carlo di Borbone, e subì dei devastanti scavi durante i quali vennero asportati molti preziosi pavimenti in marmo. Villa Jovis fu poi oggetto di un intervento di recupero nel 1932, diretto dall’archeologo Amedeo Maiuri. Furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. Ad Amedeo Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.
Fabio Longhi de Paolis
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