I loro sforzi volti a “porre fine all’uso di violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato” sono stati degni dell’ambito premio che il Comitato norvegese per il Nobel assegna a chi si è prodigato per la pace: Denis Mukwege, medico congolese, e Nadia Murad, yazida prigioniera dell’Isis, hanno visto riconosciuta e coronata la loro battaglia.
Mukwege, 62 anni, ha studiato medicina in Burundi specializzandosi in ginecologia e ostetricia in Francia. Rientrato in patria, ha aperto nel 1998 a Bukavu il Panzi Hospital, impegnato nella cura di donne vittime di stupro, una piaga nel Paese. Ad oggi è considerato il massimo esperto mondiale nella cura di danni fisici interni causati da stupro e per questo motivo è stato insignito nel 2014 dal parlamento europeo del Premio Sakharov per la libertà di pensiero.
La battaglia di Murad, descritta nel libro autobiografico ‘L’ultima ragazza’ (Mondadori, prefazione del suo avvocato Amal Alamuddin Clooney), illustra al mondo tutte le sofferenze al limite del genocidio subite della sua comunità, gli yazidi, considerati dal Califfato adoratori del diavolo. Quando aveva vent’anni e il sogno di aprire, magari dopo gli studi, un proprio salone di bellezza (2014) i miliziani dell’Isis giunti a Kocho, il villaggio dove abitava nell’Iraq settentrionale, fanno strage degli uomini, fanno scomparire le donne anziane e rapiscono lei con altre ragazze e bambini. Divenuta schiava sessuale e provando sulla sua pelle l’ignobile orrore dello stupro come arma di guerra, Nadia è poi miracolosamente riuscita a scappare. Mentre era prigioniera, la ragazza è stata continuamente umiliata, brutalizzata, stuprata anche in gruppo: un inferno che sembrava senza fine e che ha minato la sua mente e il suo corpo, ma non ha distrutto la sua dignità, né il suo istinto di sopravvivenza, anche se più di una volta ha invocato la morte come unica fonte di liberazione.
I suoi racconti descrivono minuziosamente tutto il suo mondo in trasformazione: quello precedente alla cattura, fatto di povertà, di giornate piene di lavoro, di vita familiare ma anche di sogni e di affetti sinceri, e quello crudele del Califfato, buio e privo di ogni umanità. Fino ad arrivare alla liberazione, dovuta a un caso fortuito: quando il suo carceriere per disattenzione non ha chiuso a chiave la porta della casa di Mosul in cui era prigioniera, Nadia ha colto l’occasione ed è fuggita, trovando in sé un insperato coraggio. Nemmeno la paura della ritorsione l’ha fermata. Un coraggio, il suo, che l’ha portata a chiedere aiuto bussando a una porta a caso mentre Mosul era piena di terroristi: Nadia quegli uomini senza onore né anima li ha di fatto sfidati e li ha vinti, ed è riuscita a salvarsi ricongiungendosi con quello che resta della sua famiglia. Diventata ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite (ha vinto anche tra gli altri il premio Sakharov 2016 e Donna dell’anno 2016) la giovane persegue con tenacia il duplice obiettivo di divulgare il più possibile lo sterminio di migliaia di yazidi e di veder processati i suoi aguzzini come Abu Omar, il famigerato Barba Bianca. Una prima vittoria l’ha già ottenuta, con il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha istituito un team investigativo per raccogliere le prove dei crimini dell’Isis.
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