“Il reato di abuso d’ufficio blocca l’Italia”, afferma il leader della Lega Matteo Salvini, mentre il suo avversario alle Europee Luigi Di Maio, M5S, è convinto che “toglierlo non sistema le cose”. “No – replica l’esponente del Carroccio – oggi c’è una burocrazia e una paura a firmare gli atti, aprire cantieri, sistemare scuole”. Ma se è vero che “l’abuso d‘ufficio è un reato in cui cade spesso chi amministra”, evidenzia il vicepresidente e ministro dello Sviluppo economico, è altrettanto vero che “un sindaco che agisce onestamente non ha nulla da temere”.
In piena campagna elettorale – Europee, regionali per il Piemonte e comunali in 130 città – le due forze politiche che al governo siedono vicine non si trovano d’accordo nemmeno sul ‘reato d’abuso‘ che nel codice penale è disciplinato dall‘art. 323.
La sfida tra i due ministri
Continua il confronto-scontro tra i due ministri, Interno e Sviluppo economico. L’argomento chiama in causa altre figure. Per prima, il presidente dell’anticorruzione Raffaele Cantone, concorde sul dato che mette in discussione la norma: “Una quantità enorme di procedimenti che vengono cominciati e pochissimi quelli che arrivano a sentenza di condanna definitiva, quindi c’è qualcosa che non funziona nella norma”. A suo giudizio “questo è un tema che va affrontato al di fuori della campagna elettorale e nelle sedi tecniche”.
“L’avevo detto già in tempi non sospetti – aggiunge Cantone – più di un anno fa: il tema dell’abuso d’ufficio si pone perché spesso diventa un alibi alle inerzie della pubblica amministrazione”, quindi “qualcosa va rivisto nella norma”, fermo restando che “non credo affatto che il reato d’abuso d’ufficio possa essere abolito: una norma penale che punisca atti di favoritismo, è fuori discussione, deve restare”.
Sul rivedere la norma ma non abolirla è pienamente d’accordo Matteo Salvini, anche se in un primo tempo aveva avanzato l’ipotesi di cancellare del tutto il reato di abuso d’ufficio: “Toglierei l’abuso d’ufficio. Non bloccare 8.000 sindaci per la paura di indagini”, aveva detto solo ieri. Sono parecchi infatti i sindaci, da Milazzo ad Ascoli passando per Potenza, che risultano indagati per reati configurabili come abuso d’ufficio.
“Pienamente d’accordo con il presidente dell’Anticorruzione Cantone, bisogna modificare la norma sull’abuso di ufficio per punire i veri colpevoli ma lasciare lavorare serenamente cittadini, imprenditori e funzionari pubblici”, dichiara oggi il vicepremier e ministro dell’Interno.
Fonti della Lega sottolineano che criticità erano state espresse anche dal premier Giuseppe Conte. In particolare, si fa riferimento a quanto riportato nel libro di Bruno Vespa ‘Rivoluzione. Uomini e retroscena della Terza Repubblica’, uscito a novembre del 2018, in cui il presidente del Consiglio diceva di aver dato priorità, fin dal suo insediamento, alla semplificazione burocratica. Rispondendo a una domanda su come pensava di affrontare il problema dell’abuso d’ufficio, Conte sottolineava la necessità “di approfondire un tavolo di lavoro con le procedure per valutare meglio se e in che termini riformare il reato di abuso d’ufficio”.
Ma a evidenziare la necessità di una modifica, dicono fonti della Lega, era stato anche Cantone, nel 2017 sottolineando lo “iato tra il numero di procedimenti aperti dalle procure per abuso d’ufficio e i fascicoli che effettivamente arrivano a una sentenza di condanna – diceva – La maggior parte delle inchieste si conclude con archiviazioni, proscioglimenti o assoluzioni. E’ un’anomalia che può portare a una migliore definizione del reato”.
L’abuso d’ufficio
Disciplinato dall’art. 323 c.p., l’abuso d’ufficio si verifica quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, “nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale“.
Il reato di abuso d’ufficio è stato oggetto negli ultimi anni di due riforme legislative, la l. n. 86/1990 e la l. n. 234/1997, che ne hanno profondamente modificato l’assetto, “ridimensionando” l’astrattezza e la genericità della norma e ridefinendo la fattispecie criminosa entro più delimitati confini.
A differenza della previgente disciplina, considerata una sorta di “norma penale in bianco”, la nuova formulazione dell’art. 323 c.p. subordina infatti l’illecito penale al verificarsi di determinate condotte che intenzionalmente procurano un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio: in altri termini, solo la condotta produttrice del danno o dell’ingiusto vantaggio potrà integrare il reato de quo, e non qualsiasi generica antidoverosità.
La pena
Il reato, a seguito della novella della l. n. 190/2012 che ha introdotto un aggravamento della pena, prima prevista nei limiti edittali di sei mesi e tre anni, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Al secondo comma dell’art 323 c.p. è previsto, invece, che “la pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”.
Si tratta di una circostanza aggravante speciale ad effetto comune, la cui applicazione va valutata, in base a determinati parametri, laddove il danno o l’ingiusto vantaggio siano di una rilevante gravità.
A.B.
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