Quello che fa riflettere (e preoccupare) di più nella storia grottesca di Silvia Romano, la giovane sequestrata e tenuta prigioniera per oltre un anno e mezzo tra Kenya e Somalia, è il comunicato finale del movimento dei guerriglieri jihadisti di Al Shabaab. Concluse le trattative gestite praticamente dalle intelligence di mezzo Medio Oriente, i terroristi somali, all’Italia e al mondo, hanno mandato un messaggio provocatorio e tragico al tempo stesso: grazie dei vostri soldi, dei tanti soldi che avete pagato per la liberazione della ragazza. Serviranno per comprare armi indispensabili alla causa dell’Islam…
Tradotto per chi non avesse capito: quei soldi e quelle armi che abbiamo contrattato e ottenuto grazie all’intervento dei vostri servizi di sicurezza, ci saranno utili per portare a compimento nuovi sequestri e nuovi attentati. Armi e soldi, per nuove azioni di guerra, per seminare ancora morte contro quei Paesi e quelli uomini e donne che, in buona fede, tentano di portare aiuti umanitari là dove regnano sovrani conflitti e terrorismo.
Ma queste considerazioni nel nostro caso valgono fino ad un certo punto, visto che, alla fine dei giochi, sotto la coltre della generosità spontanea ed ingenua di una ragazza pronta ad aiutare un prossimo sofferente, si scopre un mondo fatto di improvvisazione, superficialità, stupidità e opportunismo che evapora quando la situazione viene presa in mano da coloro che non giocano alla solidarietà ma ad un gioco più cattivo e feroce, quello della guerra.
Ed è da qui che dobbiamo partire per comprendere perché l’Italia si è cacciata in un bel casino, impantanandosi in una storia che poteva e doveva essere evitata. E non parliamo certo della trattativa. Quella andava fatta e la ragazza andava riportata a casa a qualunque costo.
Ma oltre alla trattativa “dopo”, molte cose forse andavano fatte “prima” in un contesto di generale e più diffusa sicurezza. Un minimo di controlli verifiche e precauzioni andavano prese, preventivamente, proprio per evitare che accadessero questo tipo di incidenti.
E’ il quadro generale del mondo della cooperazione infatti, che esce da questa vicenda, fortemente compromesso. Per le Ong, i partiti e i movimenti di sinistra, quello della solidarietà è un totem sacro cui va sacrificato tutto e forse questo, da solo, spiega la sbornia mediatica legata al rientro della ragazza accolta a Ciampino da un governo schierato in pompa magna, che, in cerca di pubblicità imbarazzante, si è messo ad ascoltare Silvia Romano, avvolta nel chador, che annuncia la sua conversione all’Islam.
Cosa dire poi di quell’inguardabile tragicomica sceneggiata del premier Conte e del ministro degli esteri Di Maio, tutti e due impegnati a non lasciare all’altro un siparietto tutt’altro che “storico”? Cosa pensare e come inquadrare infine le terribili polemiche di quella parte della politica italiana che nella vicenda ha visto una clamorosa perdita di dignità del Paese?
Ma quel che è più tragico, cosa dire di questa ragazza affetta da Sindrome di Stoccolma, che dopo diciotto mesi di prigionia, isolamento, violenza psicologica e umiliazioni di ogni tipo, conferma con enfasi il suo abbraccio all’Islam e ai suoi carnefici? Tra qualche giorno magari ne sapremo di più e cioè, che la ragazza, secondo uno schema classico già visto con i foreign fighter in Siria e Iraq, si scoprirà incinta e sposata magari con qualche guerrigliero shabab.
Si può gioire di tutto questo? Si può continuare a parlare di questa storia come di uno scampato pericolo e del sereno ritorno a casa di una ragazza che, per amore del prossimo, si è ritrovata in un gioco troppo più grande di lei?
Questo è ciò che si vuole far credere. La verità purtroppo è che Silvia Romano è stata mandata allo sbaraglio prima e abbandonata al suo destino poi. Solo oggi si scopre infatti che dietro il lavoro e l’impegno della ragazza non c’era praticamente nulla.
Una trattoria, ritrovo di vacanzieri italiani a Malindi, come base logistica di una Onlus, gestita da una giovane donna di 42 anni, tale Lilian Sora, una persona non si sa bene autorizzata da chi, un personaggio abbastanza pittoresco e pericoloso, dal quale la stessa famiglia di Silvia Romano, in passato, aveva preso le distanze. E tutto questo per svolgere attività di assistenza, in una zona dell’Africa da anni al centro di scontri tribali e terrorismo. Pazzesco.
Ma è possibile sapere dal governo quante situazioni del genere esistono nel mondo della cooperazione? Ha senso continuare a far finta di non vedere anche gli enormi interessi che intorno a questa realtà girano?
Si può sapere chi vigila, controlla e regola su un mondo improbabile che inevitabilmente attrae tanti giovani desiderosi di aiutare il prossimo? Qui non è in discussione la validità del principio che chi soffre e muore debba essere aiutato, va ribadito l’assunto che delle conseguenze di tanta improvvisazione alla fine, se ne facciano carico gli irresponsabili che mandano allo sbaraglio persone fragili o sprovvedute, complice uno Stato incapace di gestire un fenomeno, quello della cooperazione che, è bene ricordarlo, al contribuente italiano, costa ogni anno miliardi di euro.
Enzo Cirillo
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