E’ l’8 giugno, giorno dell’anniversario della prima conferenza mondiale dei capi di stato su Ambiente e Sviluppo tenutasi nel 1992 a Rio de Janeiro, la Giornata Mondiale degli Oceani, ufficialmente riconosciuta dall’Onu dal 2008. Un’occasione per riflettere a livello globale sui benefici che traiamo dalla nostra interazione con queste immense distese d’acqua delimitare dai continenti e il dovere che incombe su ogni individuo e sulla collettività di interagire con esse in modo sostenibile, affinché possano essere soddisfatte le esigenze della popolazione attuale, senza compromettere irreparabilmente quelle delle generazioni future.
Forse non tutti siamo consapevoli che attraverso la fotosintesi operata dal fitoplancton, gli oceani producono almeno la metà dell’ossigeno che respiriamo, e assorbono quasi il 30% dell’anidride carbonica da noi generata, aiutandoci a contrastare gli effetti del riscaldamento globale. Purtroppo buona parte della nostra relazione con essi si basa esclusivamente sullo sfruttamento delle risorse in essi contenute: sono infatti la nostra principale riserva di proteine, con tre miliardi di persone che dipendono direttamente dalla loro biodiversità per il proprio sostentamento primario, a cui si aggiungono circa 60 milioni di persone che hanno un impiego collegato, più o meno direttamente, all’industria ittica.
Le attività umane hanno ormai da tempo superato il punto di equilibrio tra le risorse attinte e quelle prodotte dai mari minando la salute di circa il 40% degli oceani globali. In 65 anni la flotta mondiale di pescherecci è più che raddoppiata, ma la quantità di pescato è scesa dell’80%, perché catturiamo pesci e altri organismi marini a un ritmo e con metodi che non consentono la loro riproduzione. A questo, quadro già significativamente drammatico, si aggiunge l’erosione degli habitat costieri e l’inquinamento atmosferico, chimico o da plastica, tutti elementi che hanno contribuito al declino dei grandi pesci predatori, e alla distruzione di metà delle barriere coralline a causa della temperatura eccessiva delle acque.
Gli oceani sono dunque in pericolo. Secondo Legambiente nel 2050 il peso della plastica presente nelle acque globali supererà quello dei pesci, ed è allarme anche nel Mediterraneo. Secondo i dati dell’operazione Clean Up the Med, campagna di Legambiente per la riduzione dei rifiuti marini, che si è svolta nei weekend del 14 e del 28 maggio coinvolgendo associazioni, università, comuni, enti pubblici, scuole e cittadini sono state 10 le tonnellate di rifiuti raccolti sulle spiagge di 16 Paesi diversi, tutti affacciati sul mediterraneo, di cui il 90% è plastica. Si legge nel report che “I chilometri di spiaggia ripulita dai rifiuti mostrano come il problema dell’incuria e del cattivo smaltimento accomuni tutta l’area mediterranea: alle plastiche monouso, si aggiungono reti da pesca, cicche di sigaretta, legno e vetro. Non mancano guanti, mascherine e dispositivi sanitari legati all’emergenza COVID-19”.
Parallelamente all’Ecosystem Restoration, nel quale il ripristino degli habitat delle acque dolci e salate è tra gli 8 punti principali del progetto, le Nazioni Unite hanno lanciato la campagna per il “Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile”, al fine di mobilitare la comunità scientifica, i governi, il settore privato e la società civile intorno a un programma comune di ricerca e di innovazione tecnologica per valorizzare una risorsa comune che è destinata a diventare la settima economia più grande al mondo entro il 2030 . Gli obiettivi declinano dunque una serie di qualità da conferire all’oceano così da regolare il nostro rapporto con esso. Nel prossimo decennio il programma auspica di arrivare ad avere un oceano: pulito in cui le fonti di inquinamento vengano identificate e rimosse; sano e resistente in cui gli ecosistemi marini siano mappati e protetti; prevedibile, così che la società sappia comprendere le condizioni oceaniche attuali e future; sicuro e sostenibile nel suo utilizzo, così da garantire la fornitura di cibo alla popolazione attuale e a quella futura; scientificamente trasparente con accesso aperto a dati, informazioni e tecnologie e “ispirazionale” capace cioè di coinvolgere governi, aziende e privati cittadini in azioni coordinate innovative.
Contemporaneamente un altro progetto, targato UN e sottoscritto nel 2015 dai governi dei 193 Paesi membri, i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 si ripropone di conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine. Con questo traguardo in mente, le organizzazioni impegnate nella tutela degli oceani chiedono di proteggere almeno il 30% degli oceani entro il 2030 (attraverso la campagna “30×30“). Sulla creazione di aree marine protette si potrebbe fare decisamente molto di più.
Se i governi mondiali hanno infatti raggiunto un obiettivo comune per la creazione di aree protette sulla terraferma, è altresì vero che non sono riusciti a raggiungere un obiettivo simile sugli oceani.
Secondo un recente bilancio del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), nell’ultimo decennio siamo riusciti a espandere lo status di parchi nazionali o aree naturali protette al 16,64% della superficie terrestre (quasi in linea con l’obiettivo prefissato, che era del 17%), ma soltanto al 7,74% degli oceani. Le ragioni di questa lentezza sono legate soprattutto alle dimensioni sconfinate degli oceani, e alle lunghe dispute sulla protezione delle acque internazionali.
Per celebrare la giornata mondiale degli oceani e per fare un resoconto sullo stato di salute del nostro mare, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale in collaborazione con la Rai presenta da oggi, sulla piattaforma RaiPlay lo speciale “E il mare come sta?”, condotto da Piero Angela, con la presenza del Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani e della ricercatrice Cecilia Silvestri. Durante la conversazione saranno presentati i progetti di tutela messi in atto in Italia dall’Istituto.
Elisa Rocca
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