Il processo d’Appello per l’omicidio di Meredith Kercher, dopo mesi di scontri tra accusa e difesa, ha emesso l’atteso verdetto: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono innocenti.
Alla fine a trionfare è stata la giustizia vera, quella che per condannare, in uno Stato di diritto come quello che dovrebbe essere il nostro paese, non si accontenta di indizi raccattati qua e là per tirare i muri di un castello accusatorio improvvisato e poco credibile ma ha bisogno di prove certe. Quelle che da tempo tutti chiedevano e attendevano di poter vedere e toccare con mano. In molti ormai si erano affidati alla speranza che quelle prove potessero prima o poi fare la loro apparizione in aula, attendevano che la Procura perugina facesse uscire dal suo cilindro magico la prova schiacciante e tirare finalmente un sospiro di sollievo. Che, quantomeno, potesse giustificare i quattro anni di carcere scontati dai due giovani e sgomberare il campo da equivoci e insinuazioni. Questa volta, era il pensiero comune, in maniera definitiva. L’occasione poteva arrivare, manco a dirlo, proprio dalla perizia richiesta dalla Corte d’Appello. Sarebbe stato il colpo fatale, il de profundis definitivo soprattutto alla fronda degli innocentisti che cominciavano a prendere coraggio e rumoreggiare insistentemente udienza dopo udienza. Invece, come una doccia fredda in pieno inverno, è arrivato il verdetto che ha gelato i due pubblici ministeri e la schiera di forcaioli pronti a esultare, ha chiuso all’angolo l’accusa mettendola k.o. con un colpo che nessuna Procura sarebbe stata in grado di sopportare: le tracce di sangue presenti nel coltello non erano di Amanda Knox e nemmeno di Meredith Kercher. La perizia demoliva definitivamente il castello accusatorio, per la verità assai fragile in ogni sua argomentazione e sostenuto da gran parte dei media nazionali solo per un insensato obbligo di schieramento, costruito dai pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi. Che comunque, alla fine, si erano pur sempre aggiudicati il primo dei tre round a disposizione per seppellire definitivamente dietro le mura di un carcere i due presunti assassini. Una vittoria di Pirro che, come sempre accade davanti a casi come questo, aveva diviso l’Italia in colpevolisti e innocentisti, raccogliendo da un lato i favori di chi voleva due colpevoli a tutti i costi e dall’altro i brontolii di insigni giuristi e osservatori internazionali. Una vittoria di Pirro, si diceva, ribaltata come un pedalino dalla sentenza della Corte d’Appello che ha assolto i due ex fidanzatini perché il fatto non sussiste. Nessun dubbio, quindi, nessun tentennamento: Amanda e Raffaele non hanno commesso quel delitto. Entrambi hanno quindi potuto riabbracciare libertà e familiari. Amanda tra le lacrime, Raffaele con un invidiabile self control. L’unica ad uscirne sconfitta, per il momento, resta Meredith. Per lei il desiderio, legittimo, di giustizia resta ancora un sogno da realizzare. Ma solo a pochi importa. Forse solo ai familiari e agli amici più cari della ragazza uccisa. L’attenzione, manco a dirlo, si sposta nuovamente su Amanda e Raffaele. Sono loro le star di questa storia, sono loro che dettano i tempi e le regole ai media. Basta una sola parola dell’una o dell’altro per mettere in secondo piano tutto il resto. Così, a pochi giorni dal loro rilascio, arrivano anche le prime accuse. A distanza di migliaia di chilometri l’una dall’altro ma entrambi con uno stesso comune dominatore: gli abusi subiti. La ragazza si Sheattle, dalle pagine del diario che aggiornava ogni giorno nel silenzio della sua cella, e publicato in alcuni passi dal tablodi londinese The Sun, accusa il vicecapo del carcere di Capanne di Perugia, Raffaele Argiro, di essere un “malato” del sesso. “Era fissato sul sesso – si legge – mi chiedeva con chi l’ho fatto e come mi piace farlo”. Parole che lasciano l’amaro in bocca e aprono più di un dubbio su quello che a volte si può nascondere dietro le mura di un carcere. Ma non solo. Secondo quanto scritto da Amanda nel suo diario, Argiro l’accompagnava a “quasi tutte le mie visite mediche – due volte al giorno – e di notte mi convocava al terzo piano, in un ufficio vuoto, per una chiacchierata”. “Quando gli ripetevo che dell’omicidio di Meredith io non ne sapevo nulla – continua il racconto della ragazza americana – cercava di parlarmi di lei o di portarmi verso l’argomento sesso”. Un atteggiamento che Amanda avrebbe definito “provocazioni” e di fronte alle quali si sarebbe mostrata “sorpresa e scandalizzata”. Argiro, secondo quanto riportato dal Sun, avrebbe confermato di aver chiesto in privato ad Amanda quanti amanti avesse avuto ma avrebbe anche aggiunto che Era sempre lei che iniziava a parlare di sesso”. Una ricostruzione che il vicecapo degli agenti di plizia penitenziaria smentisce con una nota consegnata all’Ansa la ricostruzione fatta da Amanda e nega categoricamente di averla confermata al giornale inglese. Il vicecapo ha anche ammesso che era presente al primo test Aids a cui venne sottoposta la Knox nonostante questo fosse contro la legge sulla privacy. “I medici – racconta a sua difesa – mi hanno voluto lì in caso di reazione violenta. Non è assolutamente vero nulla di tutto questo, così come non è assolutamente vero he ho confermato queste cose al Sun”. Una fuga da ogni responsabilità che ora, con ogni probabilità, dovrà essere giudicata dalla magistratura che dovrà decidere se aprire o meno un procedimento a carico dell’agente. Alle accuse di Amanda si aggiungono anche quelle di Raffaele Sollecito che, invece, punta il dito contro gli agenti della mobile. “Io non ho nulla di cui rimproverarmi – dice Raffaele – perché mi sono fidato della polizia, come tu mi hai insegnato a fare. Non potevo immaginare che stessero cercando di fare altro, io pensavo che fossero lì per tutelarmi, e non per esercitare azioni violente e coercitive”. Parole pesanti come macigni, parole che rievocano altre storie di violenza denunciate da altri detenuti, parole che inevitabilmente aprono l’ennesimo inquietante interrogativo sui metodi d’indagine e di tutela, tutt’altro che cristalini, degli indagati. Il processo per l’omicidio di Meredith Kercher ai due fidanzatini per il momento è chiuso ma potrebbe avere ancora qalche strascico giudiziario. Con una variante: Amanda e Raffaele, stavolta, potrebbero ritrovarsi dietro il banco degli accusatori.
Era la notte dopo Halloween, quella tra il primo e il due novembre 2007. Tutto avviene tra le dieci della sera e la mezzanotte. Perugia sembra la città dei balocchi e ognuno in questa storia è un po’ Lucignolo e Pinocchio. Solo che non è una favola. È una tragedia. Perugia è la città internazionale, qui arrivano studenti da ogni confine. C’è l’università degli stranieri, c’è l’Erasmus. Ci sono notti che finiscono all’alba. C’è tutta l’incoscienza di chi vive senza pensare al futuro e non pensi che qualcuno domani possa chiederti il conto. Non lo pensava Meredith, che di questa storia è la vittima senza riscatto. Non lo pensava Raffaele Sollecito, il ragazzo del Sud che un giorno avrebbe fatto l’avvocato. Non lo pensava Amanda Knox. Knox the fox. Amanda la volpe. Amanda la ragazzina americana che ha negli occhi qualcosa che strega. Amanda con il personaggio disegnato sulla pelle, protagonista ideale per una trama da feuilleton francese, colorato di sesso e di noir. Amanda con le physique du rôle di un angelo con la faccia sporca. Forse è questo che hanno pensato gli inquirenti e gli investigatori. Forse hanno pensato che la storia c’era tutta, roba da scrittori, roba da sceneggiato in tv. E magari se il plot funziona non hai neppure bisogno di cercare le prove, quelle vere, i «coltelli fumanti» o, peggio, non hai visto se in giro c’era un’altra trama o un’altra verità. Quella di Rudy, condannato in concorso con nessuno, non basta.
Questo resterà come un nuovo giallo senza soluzione. Di quali delitti, di quale cronaca nera narrata sui giornali, conosciamo un finale? Neppure di quelli dove c’è un verdetto e un giudice più o meno sicuro. Si raccontano le storie, ma restano lì come frammenti senza senso. Conosciamo le bugie di Amanda, come quando cercò di tirare in ballo Patrick Lumumba, il proprietario del bar dove lavorava. Conosciamo il suo diario, i suoi sogni, le sue notti d’amore. Pettegolezzi e sms. Questo ci offre la legge. Quello che non sappiamo è per quale giustizia è rimasta quattro anni in carcere. Quello che forse non sapremo mai è il nome degli assassini.
Francesco Mura
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