“Bisognerebbe che la nostra politica prendesse come esempio il lavoro di Lee Kwan Yew. Il “padre fondatore di Singapore” che non solo ha trasformato un villaggio in una metropoli, ma ha dato la possibilità a giovani meritevoli di spendersi e misurarsi con la gestione amministrativa di una realtà che in decenni è diventata un centro economico di rilievo mondiale”.
A parlare, Roger Abravanel, una vita in McKinsey dopo essere stato il più giovane laureato in ingegneria chimica al Politecnico di Milano, nello stesso periodo in cui il Nobel Giulio Natta dirigeva il dipartimento di chimica industriale.
Corsivista per il Corriere della Sera, consulente per diversi ministeri, è un osservatore critico del sistema Italia, ha affrontato le debolezze del Paese in libri come “Meritocrazia”, “Regole” e, a breve, tornerà nelle librerie con la sua ultima fatica dal titolo, emblematico, “La ricreazione è finita”.
Eppure, sebbene merito e rispetto delle regole siano temi delicati, a un passo dal sembrare pura utopia in Italia, dalle sue parole traspare un certo ottimismo.
Abravanel, è per via della sua natura o questo ottimismo è frutto dell’analisi di un professionista capace di comprendere le dinamiche dei mercati?
“Sono ottimista nel senso che se un giovane si impegna, le opportunità le trova, così come sono ottimista circa la possibilità che ha l’Italia di cambiare. Ovviamente sono anche realista. In ogni caso non si devono trovare alibi, altrimenti tutto si ferma”.
Il problema occupazionale è un dato di fatto, tutti gli indicatori hanno evidenziato gli effetti di una pesantissima crisi per il lavoro.
“Eppure di giovani che trovano lavoro ce ne sono. È vero, ci sono problemi, pesanti, ma sono convinto che i giovani meritevoli una occupazione la riescono a trovare”.
Chi cerca lavoro continua a scontrarsi contro le criticità del sistema occupazionale in Italia?
“I problemi sono reali. E nelle mie analisi li ho affrontati: le aziende, in Italia, sono dimensionalmente piccole, difficilmente tendono ad assumere. Ho passato anni a puntare il dito contro questo pensiero errato. Non assumere significa limitare la capacità imprenditoriale dell’impresa stessa, limitare l’innovazione, e quindi non far crescere le aziende”.
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha sottolineato che la dimensione d’impresa è una “variabile di cruciale importanza” negli studi sull’economia italiana.
“Cambiano i presupposti. Visco si limita a parlare del dimensionamento rispetto alla difficoltà di sostenere i costi fissi. Secondo me, invece, il problema è più ampio e legato alla difficoltà per le piccole imprese di crescere, di attrarre talenti e persone capaci di generare un cambio di passo. Il banchiere, macroeconomista e monetarista, ha una visione limitata ai costi. Questo purtroppo ha influito sulla politica del sistema bancario italiano, molto indietro rispetto ad altri paesi e che ha avuto, in veste di regolatore, le sue responsabilità nel settore”.
Ora però sembra che il contesto sia cambiato. Di fatto ogni istituzione europea, Bce in testa dopo l’avvio del QE chiede un cambio di passo, chiede riforme.
“Non possiamo cambiare solo perché ce lo chiede la Bce. È una spinta, certo, ma il cambiamento deve partire da qui. È lo Stato a dover cambiare, a creare il contesto per l’imprenditoria, a innovare. Dovrebbe farlo anche con questo sistema capitalistico, ormai superato e non al passo con i tempi di una economia globalizzata”.
Il premier Matteo Renzi ha puntato tutto su concetti come rottamazione e riforme. A guardarla bene la sua agenda di governo è la stessa di Mario Monti.
“L’agenda è la stessa perché quelli sono i punti da cambiare: spending review, riforma fiscale, riforma scolastica, lavoro, giustizia. Tutto sta a come si fanno le riforme. La differenza di base tra Monti e Renzi è che il primo è un professore universitario, il secondo è un sindaco che fa le cose. Cambia lo stile della leadership, non l’agenda”.
E passa anche per le “promesse mantenute” fatte da Renzi?
“La riforma degli 80 euro, ad esempio, rappresenta un cambio di passo. Non risolverà il problema economico degli italiani, ma è indubbio che sia stato un intervento rivoluzionario e innovativo. Risorse a dipendenti e consumatori invece che alle imprese: si poteva fare, è stato fatto”.
Non sono mancate le critiche. Alcune, aspre, dall’Anci che ha lamentato il fatto che le coperture degli 80 euro siano state garantite grazie al taglio di trasferimenti dallo Stato alle Regioni. Si parla di circa 4 miliardi di euro in meno agli enti locali.
“Le coperture sono state trovate grazie a una riduzione di spesa, ai tagli dei costi dello Stato. Ridurre i fondi alle Regioni non è una cosa negativa, soprattutto perché pesano tantissimo sulle casse dello Stato. È un problema di architettura amministrativa e, ad oggi, le Regioni pesano su questa struttura. Comunque, quando bisogna cambiare le cose, è fondamentale fare il primo passo, anche usando l’accetta”.
Come nel caso del jobs act, che ha creato pesanti tensioni nel mondo del lavoro?
“Il Jobs Act è un primo passo. Si può sempre fare meglio, ma Renzi, ad oggi, ha attaccato un sistema passato, quello dell’articolo 18, che doveva essere innovato”.
Oltre al Jobs act, Renzi ha portato a casa “la buona scuola”.
“Quella invece è stata una delusione enorme”.
Perché?
“Perché alla fine, sarà buona solo per i 150mila insegnanti che verranno regolarizzati. Non si è parlato di merito, di efficienza della scuola, di valutazione delle ‘performance’ di insegnanti e scuole”.
Cosa è mancato?
“Principalmente, un importante dibattito a monte. Il ciclo di trasformazione del sistema non è così ovvio”.
Cosa avrebbe trasformato la riforma della scuola in una ‘vera riforma della buona scuola’?
“Renzi avrebbe dovuto fare uno sforzo di rottamazione di vecchi sistemi, soprattutto in merito all’intoccabilità degli insegnati. Questo avrebbe voluto dire entrare a testa bassa – per la seconda volta dopo lo scontro sull’articolo 18 – sui sindacati. Non parlo però di licenziamenti ma di valutazione dei docenti, dai presidi in giù. È necessario capire quali scuole siano buone e quali invece mediocri”.
Misurare l’efficienza degli insegnanti. Non era stato messo in cantiere qualcosa di simile con l’ex ministro Gelmini?
“Con l’ex ministro Gelmini venne tolto dal commissariamento il test Invalsi. L’applicazione del test aveva permesso di stilare una sorta di ‘classifica’ delle scuole, ottenendo dei risultati reali sull’efficienza di un istituto e creando uno strumento conoscitivo in base al quale i genitori potessero decidere dove iscrivere i propri figli. Oltre non si andò”.
Quindi la ‘buona scuola’ è stata un’occasione persa?
“Più che altro è stata una delusione pazzesca. Il tema è semplice: la scuola deve formare i ragazzi alla vita e al lavoro. Perché questo avvenga servono scuole in grado di prepararli. Queste scuole, buone scuole, si reggono sulle spalle di professori altrettanto validi. In Italia ci sono ottimi Istituti e pessimi Istituti. Nessuno però, ad oggi, sa operare la distinzione tra gli uni e gli altri se non per sentito dire”.
E questo quanto incide sulla meritocrazia?
“Parecchio, perché ad oggi si è persa la capacità di certificare il merito. Si pensi che i datori di lavoro, oggi, danno un peso ben diverso al voto di laurea di quanto non accadeva in passato”.
Lei è stato il più giovane ingegnere chimico laureato al Politecnico di Milano, all’epoca uno degli atenei tra i più prestigiosi nel mondo. Cosa è successo da allora?
“Quando mi sono laureato, l’ho fatto con un premio Nobel. Da allora, il Politecnico è sicuramente una tra le migliori università in Italia, ma non ha più il ranking che aveva decenni addietro. In linea generale, si è perso il senso dell’eccellenza del titolo universitario. Sono proliferate università mediocri, che hanno prodotto laureati mediocri e che hanno raggiunto il titolo dopo anni fuori corso. L’attestato di laurea è diventato un pezzo di carta privo di valore”.
C’è una ricetta per sbrogliare questa matassa?
“La matassa si sbroglia garantendo maggiore selezione degli studenti dai licei. Deve arrivare all’università solo chi lo merita, senza ovviamente nulla togliere al diritto allo studio. È una barzelletta il fatto che tutti debbano laurearsi. Serve trovare un nuovo equilibrio dopo che certa sinistra e certi sindacati – complice il disinteresse di certa destra – in nome del diritto allo studio hanno prodotto il danno di cui oggi paghiamo un pesante scotto”.
Quindi, tutto il suo ottimismo da dove arriva?
“L’Italia sa cambiare il proprio destino. È più difficile che all’estero, ma il mio ottimismo è dato dal fatto che è possibile cambiare. Il 98% dei laureati alla Bocconi trova lavoro in un anno, le nostre scuole elementari sono eccellenti a livello europeo nell’azzerare i privilegi di nascita, garantendo pari formazione per tutti i bambini a prescindere dal cognome. Se si punta al merito, all’eccellenza, cambiare il proprio destino non è impossibile. Soprattutto perché di sacche di eccellenza questo Paese è pieno”.
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