Per quanti l’hanno ammirata e ancora l’ammirano per il suo talento e per quanti, invece più semplicemente, sono curiosi di conoscere i retroscena della vita di un personaggio pubblico finito tragicamente, in questi giorni, dal 15 al 17 settembre, è nelle sale italiane “Amy, the girl behind the name”, documentario prodotto da Nexo e Good Film sulla vita di Amy Winehouse, la cantautrice britannica precocemente scomparsa nel luglio 2011 all’età di 27 anni.
Presentato fuori concorso all’ultimo festival del Cinema di Cannes, il documentario aveva suscitato non poche polemiche. Il lavoro aveva irritato in modo particolare il padre della cantante, Mitch Winehouse, che si era sentito accusato di essere stato una figura assente e opportunista nella vita della figlia. Proprio in occasione del festival il regista, Asif Kapadi, aveva dichiarato di aver voluto solo raccontare con onestà la vita della cantante e nulla più.
Un ora e 30 minuti di materiale video e audio originale, assemblato e montato in modo da ricostruire il percorso artistico e umano di una ragazza dotata di un talento straordinario. Voce eccezionale, vellutata e forte, dalle tonalità calde, penetranti e a tratti sensuali, Amy Winehouse era un’anima nera incarnata nel soul bianco.
Dal documentario emerge una ragazza follemente dolce, fragile e determinata che nel cantare riusciva ad esprimere una dirompente forza tutta femminile. Una donna che sin da piccola possedeva una personalità così intensa da essere addirittura sovrabbondante, difficile da gestire persino per se stessa. Solo nel fare musica Amy riusciva ad esprimere e sostenere il suo incontenibile mondo interiore. Ma la sua spontanea capacità di comporre e cantare è stata la causa della celebrità che l’ha resa ancora più vulnerabile. Amy in effetti era questo, un intreccio di contraddizioni in continua lotta tra loro. A cominciare dal suo esasperato aspetto da pin-up in contrasto con la sua voce elegante, profonda e articolata. Alcool, droga, bulimia e anoressia, relazioni devastanti erano la manifestazione di un insostenibile tormento interiore e di paure ingestibili per la cantante. Disordini che l’hanno portata a distruggersi.
Il documentario non prende posizioni, non intende dare un giudizio sulla vita e sulla personalità della cantante né tantomeno sulla sua morte. Il desiderio di Asif Kapadi, il regista, era rappresentare un’immagine quanto più possibile realistica della Winehouse. Eppure per quanto ben montato e decisamente ricco, il documentario finisce col fermarsi ad un piano puramente descrittivo poco analitico e non sempre chiaro al livello narrativo. “Amy, the girl behind the name” sembra compiacersi dei giochi fotografici che rappresentano una storia fatta per immagini. Ma, in definitiva, resta povero nei contenuti e fonda tutta la sua forza e il suo interesse sulla straordinaria, esuberante e tragica figura dell’artista che rappresenta.
Vania Amitrano
Laureata in Lettere, amante dell’arte, dello spettacolo e delle scienze umane, autrice di testi di critica cinematografica e televisiva. Ha insegnato nella scuola pubblica e privata; da anni scrive ed esplora con passione le sconfinate possibilità della comunicazione nel web.
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