Simeone in trionfo dopo l'1-1 del Camp Nou
Sabato sera, all’ora in cui i toreri concludono le loro fatiche nella plaza de toros, l’Atlètico Madrid ha infilzato l’ultima banderilla al cuore di uno spento Barcellona e si è aggiudicato una delle edizioni più emozionanti di sempre della Liga. E’ finita con i 97.000 del Camp Nou tutti in piedi ad applaudire il “Cholo” Simeone e il suo manipolo di prodi guerrieri, autori di un’impresa che ogni aficionado “colchonero” ricorderà per tutta la vita. E il tecnico argentino, forgiato dal calcio nostrano (Pisa, Inter e Lazio con tanto di gol decisivi per lo scudetto del 2000, da calciatore; Catania, da allenatore) ma da questo mai apprezzato fino in fondo (almeno nella veste di tecnico), ha ricambiato tanta stima, prima di applaudire i 500 temerari venuti dalla Capitale. Scene da brividi e di grande sportività all’interno di una delle cattedrali storiche del calcio mondiale che, pur ferita a morte dopo aver cullato il sogno di un trionfo in extremis grazie al vantaggio di Alexis Sanchez e agli infortuni a catena dei rivali, ha riconosciuto il valore e i meriti degli avversari. Scene impensabili da noi e che ci fanno capire, in poche istantanee, quanto non solo il nostro calcio ma la nostra cultura sportiva sia distante anni luce da quella di chi l’Europa pallonara la sta dominando.
Lezioni di civiltà destinate a cadere, purtroppo, nel vuoto dei nostri veleni cui ci stiamo assuefacendo come fosse la normalità.
Simeone ai tempi della Lazio
L’Atlètico Madrid è, dunque, “campeòn de la Liga 2013/14“: titolo impensabile, quanto meritato, quello dei “materassai”, che rompe un digiuno che durava dal lontano 1995/96. Anche allora il leader della squadra biancorossa era il “Cholo” Simeone. All’epoca ancora in calzoncini corti a ringhiare, incitare e a dare anima e sostanza alla squadra del Manzanarre. Anche adesso fa, su per giù, le stesse cose. Ma in giacca e cravatta. La grinta è sempre la stessa, la voglia di vincere pure, la rabbia di gridare la propria forza in faccia ai potenti tradizionali del calcio spagnolo e non solo pure. Perchè, come ha più volte orgogliosamente affermato il tecnico sudamericano, “chi ha giocato nell’Atlètico, sarà sempre dell’Atlètico“. Senso di appartenenza ad una maglia, ad una società, ad una tifoseria, ad un ambiente che trasuda passione e storia, pur non così gloriosa come quella dei “cugini” del Real. Ma per avvertire pienamente questo senso di identificazione con il club bisogna avere qualità che non tutti possiedono. Una sensibilità fuori dal comune. Lo sanno i tifosi laziali e interisti che, tuttora, hanno un pezzetto di cuore ancora legato al ricordo di quell’hombre davvero vertical, nel senso più puro del termine.
Simeone ha plasmato una vera squadra. Presa per mano all’antiviglia di Natale del 2011 quand’era nei bassifondi della Liga e fresca di eliminazione patita per mano del modesto Albacete (squadra di Seconda divisione) in Copa del Rey. Una squadra in piena crisi. Una squadra con il quartetto difensivo composto da Juanfran, Miranda, Godìn, Filipe Luìs. Con Koke a centrocampo. Con Diego (trascorsi alla Juve) in avanti. Tutti presenti anche oggi, nella rosa laureatasi campione di Spagna e in finale in Champions League. In quella stagione l’Atlètico avrebbe chiuso la Liga con un onorevole 5° posto ma, soprattutto, avrebbe vinto l’Europa League e, poi, in estate, avrebbe impartito una lezione di calcio ai presuntuosi campioni d’Europa del Chelsea, sommersi da un impietoso 4-1 nella Supercoppa europea di Montecarlo. L’anno scorso sarebbe aqrrivata anche la Copa del Rey vinta contro gli “odiati” e ricchissimi concittadini. Poi, la cavalcata trionfale dei giorni nostri che , sabato prossimo, a Lisbona, potrebbe scrivere il capitolo più epico e, per certi versi, impensabile. Spendendo poco o nulla e cedendo la propria stella, Radamel Falcao, rimpiazzato, al centro dell’attacco, da Diego Costa, rientrato da un infelice prestito al mediocre Rayo Vallecano e oggi al centro di un “caso internazionale”, conteso dalle nazionali di Brasile (terra natia) e Spagna (quella d’adozione che ha prevalso nella scelta del giocatore).
Una squadra che, come poche altre, somiglia molto al suo allenatore: poco spettacolare, molto pratica, priva dei lampi di luce accecante del talento purissimo degli strapagati solisti del Real, estranea alla filosofia del tiki taka blaugrana, ma estremamente efficace, mai doma, compatta e composta da giocatori disposti a qualunque sacrificio pur di aiutare un compagno e che si getterebbero nel fuoco per il proprio mister. Una squadra nel vero senso della parola, intesa come collettivo di singoli solidali uniti da un rapporto quasi viscerale a Simeone. In questo molto simile a Mourinho e Conte. Ma senza il gusto della provocazione dialettica del portoghese e l’eccessiva permalosità dello juventino.
Diego Godìn dopo la rete dell’1-1
Un segno del destino, poi, che l’1-1 del titolo al Camp Nou sia stato firmato non da Diego Costa nè da Arda Turan, i due leader tecnici della squadra, entrambi k.o. dopo una manciata di minuti dal fischio d’inizio della “finale” della Liga (due colpi bassi che avrebbero ammazzato un qualunque toro in qualunque arena del mondo) ma dal gregario Diego Godìn. Il centrale uruguaiano che era in campo quella sera, al Calderòn. La sera della sconfitta con l’Albacete. Il punto più basso della storia recente dell’Atlètico.
Sabato prossimo, l’ennesima sfida”impossibile”, Europa in palio, ai fenomeni del Real. Per loro, che fenomeni non sono. Ma proprio per questo, fenomenali.
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento.
Δ
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
© Copyright 2020 - Scelgo News - Direttore Vincenzo Cirillo - numero di registrazione n. 313 del 27-10-2011 | P.iva 14091371006 | Privacy Policy