Le elezioni politiche di ieri in Birmania, le prime negli ultimi 24 anni, consegnano il Parlamento alla Lega Nazionale Democratica, il partito di Aung San Suu Kyi. La giunta militare ammette la sconfitta e il presidente Thein Sein giura che l’esercito rispetterà il verdetto delle urne.
Secondo i primi risultati ufficiali comunicati dalla commissione elettorale nazionale, la LND si è aggiudicata dodici seggi su dodici finora assegnati, sui 45 riservati all’ex capitale Yangon nell’Assemblea popolare, la camera bassa del Parlamento birmano.
Mentre la diretta interessata invita alla prudenza – “È ancora troppo presto per festeggiare”, ha dichiarato – altri membri del suo partito si dicono certi di aver ottenuto il 70% dei voti. Se così fosse, la LND potrebbe governare da sola: la maggioranza prevista dalla legge elettorale birmana è pari a due terzi dei seggi, mentre il 25% è riservato ai rappresentanti della giunta militare.
Htay Oo – vicepresidente del partito Unione, Solidarietà e Sviluppo, l’emanazione politica della giunta militare al potere dal 1990 – ha ammesso che il partito al potere ha subito “più sconfitte che vittorie”, fatto senza precedenti nella storia politica nazionale. “Dobbiamo capire le ragioni per cui abbiamo perso”, ha proseguito Htay Oo, che poi si è detto sorpreso della vittoria della LND nella sua circoscrizione, a Hinthada, nella regione dell’Ayeyarwady: “Non me l’aspettavo perché avevamo fatto tantissimo per la gente di quella regione. In ogni caso è una decisione del popolo”.
I risultati definitivi delle elezioni saranno pubblicati solo fra un paio di settimane. Se saranno in linea con i primi annunci di oggi, Aung San Suu Kyi otterrà la carica di primo ministro e le elezioni di ieri saranno ricordate come una pagina fondamentale nella tormentata transizione della Birmania verso la democrazia.
Nel dopoguerra, dopo l’indipendenza dai britannici – ottenuta nel 1947 e firmata da Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, assassinato pochi mesi dopo –, la Birmania attraversò una fase di sanguinose lotte politiche, concluse nel 1962 con l’ascesa al potere della prima giunta militare. Da allora il potere è sempre stato in mano all’esercito.
Nel 1990 – dopo l’implosione dell’URSS, l’entrata del paese nella lista nera dell’ONU che riunisce gli Stati meno sviluppati del mondo, e un tentato colpo di Stato che lasciò sul campo migliaia di vittime – la giunta concesse elezioni pluralistiche, anche allora vinte da Aung San Suu Kyi. I militari, per tutta risposta, annullarono le elezioni e la costrinsero la agli arresti domiciliari, dove sarebbe rimasta per quindici dei successivi ventun anni, mentre in Europa le venivano assegnati il premio Sakharov per la libertà d’espressione nel 1990 e il Nobel per la pace nel 1991.
Solo nel 2003 il generale Khin Nyunt presentò una “road map per la democrazia” che prevedeva di tornare alle urne in un imprecisato futuro. Le riforme vere e proprie si sono viste a partire dal 2011, quando Aung San Suu Kyi è stata liberata – insieme ad altre centinaia di prigionieri politici – e ha partecipato a una tornata di elezioni integrative, stravincendole – 41 seggi alla LND su 44 in palio – ed entrando lei stessa in Parlamento.
In quell’occasione, per la prima volta, la giunta aveva invitato osservatori internazionali a monitorare le elezioni. Il rituale si è ripetuto anche ieri. L’eurodeputato tedesco Alexander Lambsdorff, capo della missione UE, ha definito lo svolgimento delle consultazioni “regolare”, anche se sono stati riscontrati errori nella compilazione delle liste elettorali che hanno impedito ad alcuni di esprimere la loro preferenza. Come nel 2011, poi, gli osservatori non hanno potuto visitare i seggi istituiti nelle basi militari.
Filippo M. Ragusa
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