Ventiquattro maggio 1941. Per il menestrello di Duluth, colui che ha forgiato su di sé la figura del cantautore e l’ha portata ai massimi livelli della musica e della letteratura mondiale, sono ottanta rintocchi di primavere.
Non è facile parlare di una simile icona: Dylan è totalmente frutto della cultura musicale americana, eppure ha influenzato quella di tutto l’Occidente. Persino in Italia non c’è cantautore che non debba a lui qualcosa, sia che ne sia consapevole, come gli artisti degli anni’70 che gli hanno dedicato tributi e cover, sia che non lo sappia, come può accadere ai musicisti più giovani.
Bob Dylan nasce all’anagrafe come Robert Allen Zimmerman figlio di seconda generazione di immigrati ebrei dell’Europa dell’est, e sebbene si interessi di musica, di rock’n’roll soprattutto, fin da giovanissimo, è quando scopre la profondità della musica folk tramite le canzoni di Woody Guthrie che avviene la vera nascita. Nel 1958 vende la chitarra elettrica con cui si era esibito fino a quel giorno, si compra una Gibson acustica e inizia ad esibirsi nel circuito folk, qualche tempo dopo comincia a farsi chiamare Bob Dylan, in omaggio al poeta gallese Dylan Thomas come racconta nelle sue Chronicles, e la storia della musica cambia per sempre.
Nel 2016 quando ha ricevuto il Premio Nobel sono stati in molti a storcere il naso, ma è innegabile il ruolo avuto da questo artista nel portare la grande letteratura nella forma canzone e a diffonderla tra i giovani degli anni’60 per i quali ha scritto canzoni di protesta che sono diventate vere e proprie bandiere contro la guerra nel Vietnam – Blowin’ in the wind (nella celeberrima versione di Joan Baez) e Masters of War per citare le due più famose – e veri e propri inni generazionali come The Times They are a-Changin’.
Superata la fase politica e impegnata, che l’ha reso suo malgrado il profeta d’America, Dylan decide di scrivere testi più letterari e ricchi di metafore (Another side of Bob Dylan, 1964) e successivamente abbandona il folk per riapprodare al rock elettrico e al blues (Bringing it all back home, 1965). Negli anni successivi è la sua vena rock e ironica ad esprimersi appieno in album come Highway 61 revisited, del 1965, che contiene la splendida Like a rolling stone (un’atra canzone che è stata oggetto di numerose cover) e nel primo album doppio della storia del rock: Blonde on blonde (1966). Nell’estate del 1966 Dylan ha un incidente con la sua moto, nessuno sa con certezza l’entità delle ferite riportate, ma è chiara la svolta spirituale che ne segue e i 18 mesi di isolamento dagli impegni pubblici e contrattuali: è l’inizio per lui di una seconda nuova vita.
Sono state e saranno molte le svolte inattese che la sua carriera musicale prende, non sempre causate da eventi così drammatici, ma sono in molti a considerare questa prima fase la più importante della sua produzione e il resto, cioè gli altri 32 album pubblicati fino ad oggi – un numero che la dice lunga sull’inesauribile fonte creativa di Dylan – solo un tentativo di demolire il proprio mito e di esplorare nuove strade, ma senza più riuscire a cogliere i successi dei primi anni.
Inafferrabile e misterioso come il significato di certe sue canzoni, Dylan è stato oggetto anche di film – tra cui il poetico e surreale Io non sono qui di Todd Haynes in cui Dylan è interpretato da ben 6 attori diversi tra cui una strepitosa Cate Blanchett – e documentari (di cui tre realizzati da Martin Scorsese) che hanno provato a delinearne la personalità artistica, ma ne sono emersi solo dei ritratti parziali: Dylan è sempre riuscito a sfuggire alle definizioni e all’immagine stereotipata che il suo stesso mito alimentava, rimettendosi perennemente in discussione e dissacrando le sue stesse canzoni con interpretazioni live a volte al limite del dileggio. D’altronde dal 7 giugno del 1988 Bob Dylan è impegnato in una sorta di tournée senza fine – perciò definita il Never Ending Tour dal giornalista Adrian Devevoy nel 1989 – che l’ha portato sino ad oggi ad esibirsi per oltre 3000 concerti in giro per il mondo, accompagnato da una band di musicisti fidati; inevitabile quindi che le canzoni, inclusi i suoi classici, abbiano subito profonde metamorfosi e in fondo Dylan è un artista che ama spiazzare sempre il proprio pubblico.
Dopo la vittoria di un Oscar nel 2001 per la miglior canzone originale con Wonder Boys, l’assegnazione del Premio Pulitzer alla carriera nel 2008 e del Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Bob Dylan oggi è, suo malgrado, celebrato in tutto il mondo come un grande classico, tanto che esiste dal 2017 il Dylan Archive di Tulsa, in Oklahoma, legato alla locale università, che ha già cominciato a organizzare convegni sia per studiosi sia per appassionati sul lavoro di Dylan, e che raccoglie più di 6000 materiali relativi all’artista tra cui taccuini, filmati mai pubblicati di suoi concerti, pezzi del suo abbigliamento diventati storici.
Auguriamo una vita ancora lunga a questo poeta della musica, in attesa di scoprire su quale nuova strada lo seguiremo, seguendo le note delle sue prossime canzoni.
Elisa Rocca
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