Anders Behring Breivik, l’autore della strage di Utoya, ha vinto una causa contro il governo norvegese per violazioni dei suoi diritti fondamentali in carcere.
Per gli attacchi di luglio 2011 Breivik è stato condannato a 21 anni di prigione, la pena più grave prevista nell’ordinamento norvegese, che sta scontando in isolamento totale nel penitenziario di Skien. Alla scadenza dei termini la detenzione potrà essere prolungata se il giudice lo riterrà ancora pericoloso.
A luglio 2011, Breivik posizionò una bomba in un palazzo che ospitava uffici del governo a Oslo; poi raggiunse l’isola di Utoya, dov’era in corso un raduno di giovani sostenitori del partito laburista, radunò qualche centinaio di ragazzi e ragazze in uno spiazzo fingendosi poliziotto e sparò sulla folla con un fucile a pompa e una pistola di grosso calibro. Dopo aver dato il colpo di grazia ai feriti, chiamò lui stesso la polizia, che in quelle ore stava seguendo un’inesistente pista islamista, per riferire di avere compiuto la sua “missione contro il veleno della società multiculturale”. In totale uccise 77 persone. Oggi sostiene di aver rinunciato alla violenza, ma si definisce ancora nazista, e non manca di ricordarlo ogni volta che compare davanti a una giuria.
La titolare del procedimento, Helen Andenaes Sekulic, ritiene che l’isolamento totale al quale è sottoposto vada considerato uno di quei “trattamenti inumani o degradanti” espressamente vietati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questa proibizione, come ha spiegato la giudice, “è un valore fondamentale di ogni società democratica” e “si applica in ogni caso, anche a terroristi e assassini”. Per i cinque anni passati in queste condizioni, lo Stato norvegese dovrà risarcire lo stragista di Utoya con 330 mila corone, pari a circa 35 mila euro.
È stata invece respinta la seconda parte del ricorso, che chiedeva la fine del controllo sulla sua corrispondenza da parte dell’autorità giudiziaria. Il tribunale ha spiegato che Breivik, se fosse messo in condizione di comunicare liberamente con il mondo esterno, se ne servirebbe per fare propaganda. Lo dimostra il fatto che dal carcere ha provato a stabilire contatti con altri esponenti neonazisti: ha anche scritto lettere d’amore a Beate Zschaepe, l’unica superstite del gruppo armato tedesco NSU, ora sotto processo a Monaco per l’omicidio di dieci stranieri e un’agente di polizia.
Le immagini del carcere dov’è rinchiuso sono state paragonate a quelle di un albergo: la cella di Breivik è simile a un miniappartamento di 31 metri quadrati diviso in tre stanze, equipaggiato con attrezzi per esercizi fisici, una tv e un computer, ovviamente non connesso a internet. Eppure, il suo legale Oystein Storrvik ha passato alla stampa norvegese una lettera in cui Breivik si lamenta di “soprusi” come il caffè non abbastanza caldo e la scarsità di burro da spalmare sul pane. Il gesto si può spiegare in molti modi, uno dei quali è l’utilità di ricordare al pubblico che l’equilibrio psichico del suo assistito è quantomeno fragile. Ma non è certo per le comodità che i giudici – solo in parte, come si è visto – gli hanno dato ragione.
Durante il dibattimento, lo scorso marzo, l’avvocato Storrvik si è detto convinto che Breivik passerà il resto dei suoi giorni in carcere, e questo rende particolarmente importanti le condizioni della sua detenzione. L’isolamento totale lo avrebbe reso “mentalmente vulnerabile”, secondo il legale, e lo potrebbe portare all’autolesionismo.
Sulla decisione del tribunale potrebbe avere influito anche un rapporto pubblicato alcuni mesi fa dal Difensore civico norvegese. Il documento citava proprio i rischi per la salute psicofisica dei detenuti in isolamento, e ha convinto le autorità a inserire alcune modifiche nella disciplina di legge. Le testimonianze di psichiatri e altri professionisti che hanno avuto contatti diretti con Breivik avrebbero rafforzato la tesi della procura, che lo ha definito un “narcisista alterato ideologicamente”.
Sulla sentenza che ha dato ragione al terrorista norvegese questo il commento di un sopravvissuto alla strage di Utoya: «Il fatto che il tribunale abbia dato ragione a Breivik mostra che il nostro sistema giudiziario funziona e fa rispettare i diritti umani anche nelle condizioni più difficili». Sono le parole che Bjørn Ihler, regista e attivista norvegese che in giorno della strage si trovava anche lui sull’isola poco distante da Oslo, ha affidato a Twitter. Breivik puntò la sua arma su Ihler e gli sparò, mancandolo; Ihler ha testimoniato contro di lui in tribunale.
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