“Il 16 novembre 2010, verso mezzogiorno, l’architetto francese Christian de Portzamparc è salito sul palco di un centro congressi di Bruxelles e ha cominciato a parlare di grattacieli”. Comincia così il reportage curato da Francesca Spinelli per rassegna.it. Un reportage sui luoghi di una città destinata a cambiare il suo volto.
Portzamparc ha spiegato che le città hanno bisogno di “luoghi di densità magnetica” e che i grattacieli, come dimostra Manhattan, generano questa densità. In sala qualcuno ha scosso la testa. Nonostante il titolo del suo intervento – Il grattacielo europeo di domani –, Portzamparc era lì per presentare un progetto ben preciso, che il suo studio realizzerà a Bruxelles: la ristrutturazione di rue de la Loi, l’asse stradale che taglia a metà il quartiere europeo. Oggi è un vialone fiancheggiato da uffici, con quattro corsie a senso unico. Dopo le sei del pomeriggio i pochi pedoni scompaiono, il traffico si rarefà e la strada diventa deserta e spettrale. Il progetto di Portzamparc prevede una serie di interventi – tra cui la costruzione di tre grattacieli – che dovrebbero rendere la zona più “conviviale”, favorendo la mixité di funzioni (la compresenza di alloggi, uffici e attività commerciali). Il suo “Projet Urbain Loi” rientra in un più ampio piano adottato dalla regione nel 2008 – lo Schema direttore del quartiere europeo – per rilanciare l’immagine di un’area urbana stravolta dall’insediamento delle istituzioni europee. La Commissione, il Parlamento, il Consiglio dell’Unione europea, il Consiglio europeo, il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni hanno tutti sede in questo quartiere. Il Servizio europeo per l’azione esterna, nato con il trattato di Lisbona, aprirà i suoi uffici nel Capital, un palazzo della società Axa Re che affaccia sul rond-point Schuman, cuore della zona. Lo schema direttore distingue due aree di intervento: quella definita “problematica”, dove si concentrano gli uffici delle istituzioni europee e delle società collegate all’attività istituzionale (lobby, studi legali, società di consulenza e via dicendo); e il quartiere europeo in senso lato, che comprende sia la zona delle istituzioni sia le aree circostanti, inevitabilmente toccate dall’aridità urbanistica irradiata dal centro. Marco Schmitt, dell’Association du Quartier Léopold (uno dei comitati di quartiere della zona), si definisce “un frutto delle istituzioni europee”: “I miei genitori – mio padre tedesco, mia madre italiana – si sono conosciuti in Lussemburgo, erano tra i primi funzionari. Se queste istituzioni non esistessero, non sarei qui a parlarne”. Armato di carta e penna, al tavolino del bar dove ci siamo dati appuntamento, Schmitt ripercorre le fasi principali della storia del quartiere. “Questo è il centro storico della città”, dice, disegnando un pentagono.”Da qui partivano varie strade, in particolare quelle che ci interessano, la chaussée de Louvain e la chaussée de Wavre, attraversate dalla valle del fiume Maelbeek”. Sulla carta prende forma una specie di trapezio al contrario. Lungo le chaussées e il fiume nacquero dei sobborghi, poi, verso la metà dell’ottocento, le autorità decisero di sviluppare l’area vuota compresa tra le due chaussées: prolungando il disegno a scacchiera del Parco reale, crearono un quartiere residenziale che attirò la ricca borghesia e l’aristocrazia.”E questo spiega la situazione attuale”, conclude Schmitt. “Questa zona è stata fin dall’inizio monofunzionale. Da quartiere residenziale abitato da un’unica fascia della popolazione si è trasformato in quartiere di uffici con l’arrivo delle istituzioni europee: i ricchi proprietari hanno venduto agli imprenditori immobiliari – cioè a parenti e amici, perché il gruppo sociale era quello – e si sono trasferiti altrove”. Nel 1960 lo stato belga comprò il terreno su cui sorgeva il convento di Berlaymont, destinandolo alla Commissione. Fu il primo edificio costruito per le istituzioni europee. Nel giro di vent’anni il quartiere cambiò radicalmente: la case ottocentesche furono demolite e rimpiazzate da palazzi di uffici, spesso di qualità mediocre. Dell’antico splendore residenziale oggi rimane ben poco. Prendendo rue de l’Industrie, una traversa di rue de la Loi, si arriva a square Frère-Orban, un’oasi sopravvissuta agli scempi degli anni sessanta e settanta. Solo in parte, però: un lato è interamente occupato da palazzoni moderni, alcuni in via di demolizione. Il rumore assordante dei lavori invade il giardino al centro della piazza e s’infrange contro le facciate neoclassiche della sede del Consiglio di Stato – residenza del futuro re Alberto I fino al 1908 – e della chiesa di San Giuseppe, patrono del Belgio. “Lì sono stati battezzati i tre figli di Alberto I”, mi racconta il signor Edmond Secq, un anziano abitante di rue de l’Industrie. Poi, con aria rassegnata, aggiunge: “Nel mio palazzo ci sono sedici appartamenti, quasi tutti occupati da uffici. Vent’anni fa sotto casa avevamo ancora un fornaio e un macellaio. Ora tutto questo è scomparso”. Ho conosciuto il signor Secq a rue du Commerce, una parallela di rue de l’Industrie, in un altro luogo miracolosamente scampato alle ruspe. È la casa-studio del pittore Marcel Hastir, che il 22 marzo compirà ben 105 anni. Nell’arco di settant’anni il suo atelier ha accolto artisti affermati ed esordienti, membri della Resistenza ed ebrei, studenti d’arte e amici, come racconta il bel documentario 51, rue du Commerce di Caroline Hack (che tra l’altro, con un’amica, ha avuto l’intrepida idea di aprire una galleria d’arte vicino al Parlamento europeo). Nonostante il suo incredibile valore, l’edificio ha rischiato più volte di essere demolito. Nel 2002 un gruppo di volontari – formato da cittadini belgi e funzionari europei – ha lanciato una campagna in difesa dell’atelier, dichiarato patrimonio storico nel 2006 e ora gestito da un’associazione culturale che organizza concerti e corsi di musica e di disegno. Roland Schmid, tra i fondatori dell’associazione, mi accoglie nello studio una domenica pomeriggio, poco prima dell’inizio di un concerto. La stanza è come sospesa fuori dal tempo. I quadri di Hastir – grandi ritratti intrisi di amore per il prossimo – sembrano vegliare sul pianoforte e sulle sedie che cominciano a riempirsi. Schmid si anima ricordando i lunghi anni di lotta a fianco dell’artista:”E salvando questa casa dalla demolizione, senza volerlo abbiamo salvato anche i due palazzi a fianco. Uno dei due ora ospita la sede della Regione Friuli Venezia Giulia, che ha comprato l’edificio e l’ha ristrutturato benissimo. A volte i nostri sforzi hanno ripercussioni che neanche immaginiamo”. Nella loro campagna, Schmid e gli altri amici di Hastir hanno ricevuto il sostegno di due associazioni che da decenni si battono per uno sviluppo sostenibile di Bruxelles, Inter-Environnement Bruxelles (Ieb) e l’Atelier de Recherche et d’Action Urbaines (Arau). Sono entrambe nate a cavallo degli anni sessanta e settanta, all’epoca delle prime grandi mobilitazioni cittadine contro la cosiddetta bruxellisation (termine usato dagli urbanisti per indicare gli stravolgimenti urbanistici provocati da investitori privati senza scrupoli). “Bisogna innanzitutto sapere che il Belgio è un paese di imprenditori e di rentiers – proprietari di immobili che vivono di rendita”, spiega Isabelle Pauthier, direttrice dell’Arau. “Gli imprenditori immobiliari esercitano pressioni enormi sui poteri pubblici, che non hanno mai dato grande importanza al patrimonio architettonico”. Gli amministratori di Bruxelles sono sempre stati molto attenti a promuoverne l’immagine internazionale, anche a scapito degli interessi degli abitanti. Oggi le cose sono un po’ migliorate, ma la tentazione di considerare la città una “vetrina”, in grado di competere con altre metropoli europee, è ancora forte. “Costruire grattacieli – sottolinea Pauthier – è solo un’operazione di marketing urbano”. Anche le istituzioni europee sono attente alla loro immagine. “Il Projet Urbain Loi – denuncia Mathieu Sonck, segretario generale dell’Ieb – di fatto nasce per consentire alla Commissione di espandersi a rue de la Loi”. E se i nuovi uffici possono essere ospitati in svettanti grattacieli firmati da un’archistar come Portzamparc, tanto meglio. Eppure diversi studi dimostrano che costruire edifici così alti in quel punto della città avrebbe un impatto disastroso sul piano ambientale. Inoltre il progetto – che pretende di dar vita a un “eco-quartiere” – prevede la demolizione di interi isolati, operazione dall’elevato costo ambientale, a differenza della riconversione di edifici già esistenti. “Ma poiché una grossa parte delle entrate della regione di Bruxelles è legata alle transazioni immobiliari – spiega Sonck – le autorità finiscono per incoraggiare queste operazioni”. Quel 16 novembre anche Sonck era al convegno sui grattacieli. Seduto tra il pubblico, ha chiesto a Portzamparc come pensava di garantire la mixité nella zona di rue de la Loi. Portzamparc è stato onesto: non c’è nessuna garanzia, ha risposto, bisognerà affidarsi al mercato. Né l’Arau né l’Ieb nutrono grandi speranze sul futuro del quartiere, che ai loro occhi è comunque “perduto”, una sorta di ghetto per colletti bianchi. Pauthier, inoltre, denuncia l’ipocrisia delle istituzioni europee, che ai paesi membri predicano una cosa (“tutti quei libri bianchi sulla mobilità verde, sull’ambiente urbano, sulle città vivibili…”) e a Bruxelles fanno il contrario. Marco Schmitt, che si considera un pragmatico, è più ottimista. Riprendendo il disegno del quartiere, mi indica la zona di uffici intorno a rue de la Loi : “Per riportare la vita qui, dobbiamo puntare sull’espansione delle aree circostanti, che corrispondono ai sobborghi del passato”. Schmitt ha ribattezzato questa strategia “gentrificazione al contrario”: promuovendo la vita culturale e artistica, si dovrebbe riuscire ad attirare nuovi residenti, inizialmente una popolazione giovane e benestante, in seguito, con un po’ di fortuna, anche altre fasce sociali. “Dobbiamo creare un nuovo tessuto sociale, nuove solidarietà!”, esclama. Se è vero che il quartiere europeo è il simbolo del mondo in cui viviamo, fatto di individualismo e legami spezzati, “è anche un’occasione per riflettere su come cambiare le cose”. Al numero 40 di rue de la Loi, una casetta a tre piani interrompe l’opprimente schiera di palazzoni. Dietro la vetrina del ristorante al piano terra, Nora Boudehane si aggira tra i tavoli per salutare i suoi clienti. Proprietaria dell’edificio dal 2008, abita al piano di sopra. “Quando ho rilevato l’attività – ricorda – non avevo i soldi per affittare un appartamento, così mi sono dovuta adattare trasformando l’ufficio. Certo, vivere in questa strada fa un po’ paura”. “L’attività paziente dell’abitare – scrive Franco La Cecla in Contro l’architettura – è in grado, con il passar del tempo, di rendere vivibili anche i luoghi più selvaggi e le periferie più brutte”. Speriamo che tra qualche anno Nora abbia non solo dei clienti, ma anche dei vicini.
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