Il 4 febbraio del 211 d.C. moriva a York l’Imperatore Settimio Severo nel suo 65°anno di età. Dopo 18 anni di fortunato e glorioso regno lasciava come suoi successori i due figli: Marco Aurelio Bassiano Antonino (detto Caracalla), maggiore di un anno, e Aurelio Antonino Geta. Per assumere il regno Severo aveva combattuto quattro anni di battaglie sconfiggendo altri due pretendenti: Pescennio Nigro a Oriente, e Clodio Albino in Occidente. Vittorioso su entrambi fu inesorabile nella vendetta. In Siria, Pescennio dopo la disfatta venne ucciso e decapitato, e stessa sorte toccò a Clodio in Gallia. Severo prima sbaragliò il suo esercito, poi lo fece decapitare inviandone la testa al Senato con una lettera. Dopo la battaglia si impossessò dei carteggi degli ultimi tre anni tra questi e il Senato, e scoprì di tutti i tradimenti orditi alle sue spalle, così quando giunse a Roma si vendicò e fece mattanza di tutti i traditori. Solo in città furono eseguite quaranta condanne a morte senza processo, furono mandati a morte senatori, ex consoli, ex pretori, ex governatori delle province, e numerosi nobili di importanti famiglie. Infine fece eseguire migliaia di altre esecuzioni in tutte le province dell’Impero, eliminando di colpo tutti i suoi potenziali nemici.
Questa era la ferocia di Settimio Severo che il suo biografo Elio Spaziano definì come: “ Un assassino privo di scrupoli. ” Sta di fatto che in un clima di vendette e di violenza i due Principi Caracalla e Geta trascorsero la loro fanciullezza alla corte imperiale. Nonostante gli sforzi del padre, che gli affiancò i migliori precettori in circolazione, i due fratelli amarono soprattutto i giochi gladiatori, le corse dei cocchi, e i piaceri carnali. Sin dall’infanzia, mostrarono tra loro una reciproca antipatia che li fece crescere in continua competizione. Più passava il tempo e più l’odio profondo aumentava divenendo leggendario. La loro avversione era alimentata dai tanti favoriti e ruffiani che puntualmente li mettevano a confronto in tutte le gare a cui partecipavano, e alla fine la loro rivalità si estese al teatro, al circo, alla corte, e al popolo di Roma, dividendo tutto in due fazioni. Nei primi anni del 200 d.C., Severo intraprese la guerra con i Britanni e decise di partire per il fronte portando con se entrambi i figli già da tempo associati nell’Impero. A Caracalla, dal carattere altezzoso, torbido e pieno di superbia, assegnò il vice-comando dell’esercito, e al mite e fragile Geta gli incarichi amministrativi e burocratici. Si racconta che durante un diverbio Caracalla puntò la spada alla gola del padre e che addirittura tentò di far ammutinare le truppe. Insofferente a ogni sorta di indugio o divisione del comando, Caracalla arrivò a minacciare i medici affinchè accelerassero la morte del padre malato, e che morto l’Imperatore li fece uccidere subito, insieme a tutti i liberti della famiglia che erano stati a lui cari e vicini. Questa era la perfida cattiveria di Caracalla. Le fonti raccontano che Severo nei suoi ultimi momenti di vita mandò a chiamare i suoi figli e gli disse: ” Rimanete d’accordo, arricchite i soldati, e disprezzate tutti gl’altri ”. Poi raccomandò entrambi i fratelli alle truppe, che fedeli al giuramento acclamarono ambedue i fratelli Imperatori. Nel rapido viaggio di rientro attraverso la Gallia e l’Italia i due Imperatori non si parlarono mai, ne mangiarono ad una stessa tavola, e non dormirono mai nello stesso alloggio.
Al loro arrivo a Roma si divisero equamente il potere imperiale, e divisero in due anche la vasta residenza dei Cesari posta sul Palatino. Oramai i due regnanti non si parlavano più, e si incontravano solo in pubblico alla presenza della madre Giulia Domna, ognuno circondato da un nugolo di soldati. Era una situazione di dualità che rendeva lo Stato insicuro e il popolo sofferente. Ma soprattutto faceva infuriare Caracalla che, avido di potere, non tollerava un contendente. Alla fine come era prevedibile, Caracalla eliminò Geta. Agì d’astuzia e convinse Giulia Domna a convocare con una scusa il fratello nelle sue stanze, dicendole furbamente di voler tentare un riavvicinamento. Geta arrivò negli appartamenti della madre disarmato e senza scorta e, a sua insaputa, vi trovò anche il fratello. Tra i due si accese subito una discussione, quando improvvisamente da dietro le tende uscirono fuori dei centurioni che Caracalla aveva fatto nascondere. Mentre Caracalla li incitava ad ucciderlo, i sicari trucidarono Geta con le daghe e nella foga ferirono Giulia ad una mano. Caracalla si giustificò con tutti rivoltando la frittata, e adducendo falsamente, complice la madre reticente, motivi di legittima difesa.
Era il 25 dicembre del 211. Alla morte di Geta ne seguirono molte altre, ma Caracalla conscio dell’amore popolare di cui ancora godeva il fratello anche stavolta agì astutamente. A cadavere ancora caldo, ovunque ricordò il nome di Geta con rispetto, e gli fece ricevere le onoranze funebri dovute ad un imperatore romano. Ma molto presto, con l’appoggio incondizionato dei militari, cambiò atteggiamento e costrinse il Senato a dichiarare Geta nemico pubblico facendogli pronunciare anche la “ Damnatio Memoriae.” Come fu per Nerone, Domiziano e Commodo, anche Caracalla ebbe un cambiamento caratteriale rapido e improvviso e dalla morte del fratello prese a comportarsi come una bestia. Fu preso dai rimorsi di coscienza , e confessò agli amici come spesso i fantasmi del padre e di Geta gli apparivano in sogno minacciandolo e rimproverandolo. Così pensò di cancellare dal mondo tutto ciò che potesse ricordargli la sua colpa o risvegliargli la memoria del suo assassinato fratello: ne fece abradare le effigi dalle monete, rovesciò tutte le statue che lo rappresentavano e ne cancellò il nome da ogni scritta, pittura ed epigrafe( anche nell’Arco di Settimio Severo, nel Foro romano, il nome di Geta venne abraso e sostituito dalle parole optimis fortissimisque princibus). Ma non fu sufficiente, era sempre ossessionato dal fantasma del fratello, e allora passò allo sterminio. Decise che nessun partigiano di Geta doveva sopravvivere e nessuno sopravvisse. Dione parla di 20.000 persone dell’uno e dell’altro sesso che incontrarono la morte a Roma e in tutte le province sparse nell’Impero. Furono inclusi nelle liste di proscrizione le guardie di Geta, i liberti, i ministri degli affari più gravi e i compagni dei suoi piaceri, e anche i suoi atleti favoriti, gli aurighi, gli attori e i danzatori e tutti quelli che per il suo interessamento avevano ricevuto incarichi nell’esercito e nelle province, con la lunga catena dei loro clienti. Una proscrizione con la quale si cercò di raggiungere chiunque avesse mantenuto il minimo rapporto con Geta e ne piangesse la morte, o soltanto ne ricordasse il nome.
Inoltre l’Imperatore approfittò del clima di terrore per proscrivere anche tutti i possibili aspiranti al trono, e quelli che potessero complottare contro di lui. In questa immane carneficina perì anche il più autorevole giurista dell’epoca, Emilio Papiniano, tra i più cari amici del padre, reo di non aver giustificato il suo fratricidio sotto il profilo giuridico, secondo la tesi suggeritagli da Caracalla della legittima difesa. Quelli che non faceva uccidere, Caracalla li puniva relegandoli nelle province. Coloro che soffrivano il caldo finivano a soggiornare in Africa, mentre quelli che temevano la morsa del freddo li spediva nelle province del Nord Europa. L’Imperatore, per non farsi mancare niente uccise anche la moglie, mandata in esilio a Lipari, e si accanì anche contro le vergini vestali facendone mandare a morte ben quattro. Bassiano Antonino era un uomo piuttosto basso ma di corporatura massiccia, aveva un volto che ne mostrava l’ estrazione sociale umile ( l’origine dei Severi era Leptis Magna in Africa). Viene rappresentato con la faccia pingue, il collo corto e tozzo, i capelli ricci, la fronte bassa, il mento lungo, il naso largo, e con lo sguardo feroce e accigliato.
Caracalla era un uomo astuto capace di esprimersi con forza. Aveva l’abitudine di dire avventatamente tutto quello che gli passava per la mente, e non usava chiedere consiglio agli esperti, per cui si creava l’avversione di chi gli stava vicino. Dione Cassio (suo contemporaneo) credeva non fosse sano, ne’ di corpo ne’ di mente. In ogni caso era uomo ambizioso che mirava soprattutto alla gloria militare, aveva una vera e propria adorazione per Alessandro Magno di cui si credeva la reincarnazione. Del re macedone prese il nome, le insegne, ed il vezzo di tenere piegata la testa sul collo. Nei cinque anni del suo regno Caracalla dimostrò di possedere una notevole energia innovativa: si impegnò nella riorganizzazione dell’esercito; condusse vittoriosamente importanti campagne militari; migliorò la condizione degli schiavi; garantì la successione e la tutela dei minorenni; fece applicare agli adulteri la pena di morte. Fu anche un costruttore esagerato sperperò somme enormi di denaro pubblico per l’arte grandiosa, per le costruzioni che lo facevano apparire al popolo un uomo straordinario (le sue terme erano le più grandi ed importanti mai costruite al mondo).
Ma soprattutto emanò la Costitutio Antoniniana (o Editto di Caracalla) estendendo la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi che popolavano l’Impero e a quei barbari che erano disposti a combattere sotto le insegne di Roma. L’editto giungeva in un momento in cui le casse dello Stato erano in dissesto per le enormi spese profuse nella manutenzione delle migliaia di strade sparse nell’Impero, per le fortificazioni, le costruzioni, per gli stipendi militari, per il fasto della corte e l’apparato burocratico. L’Editto di Caracalla fu così provvidenziale per rimpinguare il Tesoro Imperiale, perchè allargò la base fiscale, estendendo anche ai provinciali il pagamento di alcuni tributi, come le imposte di successione o le tasse sull’affrancazione degli schiavi, in precedenza pagati dai soli cittadini romani. Nel suo primo anno di regno l’Imperatore aveva dimostrato di essere un innovatore e uomo sufficientemente energico, ma il suo carattere pessimo e pieno di albagìa, gli aveva allontanato la folla romana.
Nel 213 odiato e temuto da tutti, lasciò Roma per non farvi più ritorno. Passò il resto del suo regno nelle diverse province dell’impero e queste divennero il teatro delle sue rapine e della sua crudeltà. Prima imperversò con l’esercito in Gallia facendo stragi e terrorizzando la popolazione, poi passò in Tracia e in Germania accumulando successi militari. Infine si trasferì in Asia dove, con la sua strapotenza militare e con l’arte dell’inganno che gli era naturale, diede sfogo a tutta la sua perfidia. Come quando invitò a Nicomedia Abgare principe di Osroene, e dopo averlo fatto prigioniero si impadronì del suo Stato facendo di Edessa una colonia romana. Fece lo stesso con il re dell’Armenia che prese prigioniero con moglie e figli, ma stavolta la popolazione si rifiutò di sottomettersi. Per emulare Alessandro Magno organizzò una spedizione contro la Parzia , dopo Roma il regno più potente e ricco dell’epoca. Prima di attaccare chiese al re Artabano di concedergli la mano della figlia in modo di unire in maniera pacifica i due regni. Il re decise di accettare. Quando si incontrarono in territorio partico per celebrare la cerimonia, Artabano e i suoi gli andarono incontro indossando abiti da cerimonia e senza armi. Caracalla senza esitare attaccò per farli prigionieri, la maggior parte del suo seguito perì nell’agguato ma il re Artabano fuggì salvato dalla sua scorta. In Oriente, i senatori che vivevano al suo seguito erano terrorizzati e cercavano di assecondare tutti i suoi capricci.
Caracalla li obbligava a preparargli ogni giorno nuovi divertimenti, che con disprezzo abbandonava alle sue guardie. In ogni citta dove si prevedeva soggiornasse qualche mese, faceva costruire maestosi palazzi residenziali e magnifici teatri, ma ogni volta per umiliare i senatori non vi risiedeva, e si sdegnava anche di visitarli, o comandava di abbatterli appena giunto. Le più ricche famiglie dei luoghi ove soggiornava, venivano rovinate con ingiuste tasse e confische, mentre alla massa dei sudditi imponeva gravose e stravaganti imposte. Obbedivano tutti, erano terrorizzati dal solo suo nome. Forse perché era ancora fresco il ricordo della strage compiuta ad Alessandria durante il suo pellegrinaggio alla tomba di Alessandro Magno. Gli Alessandrini, da sempre gente irriverente e avvezza allo scherno, vedendolo con la corazza che diceva essere di Alessandro, e con il collo ritorto su una spalla come l’eroe macedone, iniziarono a deriderlo dicendo che un nanerottolo come lui non poteva emulare eroi come Alessandro e Achille, o con facezie e canzoncine che affibbiavano alla madre il nomignolo di Giocasta (alludendo al loro presunto rapporto incestuoso) e a lui Alexander Geticus (alludendo alla sua mania per Alessandro e al fratricidio). Ma con Caracalla non si scherzava. E difatti fece una carneficina indiscriminata, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini.
Come egli scrisse freddamente al Senato “ Tutti gli Alessandrini, quelli che sono periti e anche quelli che sono scampati, erano ugualmente colpevoli.” Per agire nella vendetta, come sempre usò l’astuzia e l’inganno. Con la scusa di voler costituire una falange, chiamata Alessandrina, che necessitava di reclute ben pagate, organizzò un banchetto nella grande piazza pubblica, invitando a pranzo tutti i notabili della città e migliaia di giovani aspiranti falangisti con le loro famiglie. Lui non si fece vedere, ma si posizionò nel tempio di Serapide che dominava la piazza. Da li diede il segnale al suo esercito e diresse la strage che ne seguì. Persero la vita più di 20.000 tra cittadini e stranieri. L’eccidio proseguì per giorni, Alessandria venne abbandonata al saccheggio della soldataglia, e poi per sfregio venne divisa in due quartieri non comunicanti. Questa era la crudele ferocia di Caracalla. Ma in ogni caso i suoi soldati lo adoravano perché l’Imperatore passava molto tempo con loro, ne condivideva le fatiche, il loro pasto frugale e concedeva loro molti donativi. Dione Cassio racconta che era solito dire con tono burbanzoso: “ Nessuno, all’infuori di me, deve avere denaro, affinchè io possa darlo ai soldati .“ Per ironia della sorte fu ucciso proprio in una congiura maturata in ambito militare dove Caracalla si sentiva incontestabilmente sicuro. Marco Opellio Macrino prefetto del pretorio, ne organizzò l’omicidio, in Mesopotamia. Avendo certezza che l’Imperatore l’avrebbe presto ucciso, il prefetto Macrino giocò d’anticipo e mandò a chiamare Marziale un soldato deluso, che detestava Caracalla per non aver ottenuto il grado di centurione che meritava da tempo.
Macrino lo fomentò e gli promise promozioni e premi se avesse ucciso l’Imperatore. Di li a poco, accompagnato da uno squadrone di cavalleria, Caracalla decise di fare un pellegrinaggio da Edessa (capitale dell’Osroene) al tempio della Luna situato a Carre. Lungo il cammino ordinò di fermare il convoglio per sua necessità di fare un bisogno naturale. Tutte le guardie rimasero a rispettosa distanza, ma Marziale accostatosi a lui con pretesto di ossequio lo trovò impacciato mentre si levava la tunica di dosso, così lo trafisse uccidendolo con un colpo di daga alla clavicola. Lo storico Edward Gibbon fu lapidario sulla morte ingloriosa di Caracalla: “ Questa fu la fine di un mostro la cui vita disonorò il genere umano.” Era l’8 marzo del 217 d.C. , come Nerone anche Caracalla moriva a 31 anni.
Fabio Longhi De Paolis
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