Un tweet di Hillary Clinton getta nel panico le case farmaceutiche e affossa i loro titoli in Borsa. Sotto accusa i rincari astronomici dei medicinali. Dopo lo scandalo Volkswagen, nel mirino degli USA finiscono così i produttori di medicinali, che oltreoceano devono rispettare molte meno regole che in Europa e a loro volta elargiscono ingenti finanziamenti – legali e documentati – ai politici.
“Una speculazione come questa nel mercato dei farmaci specialistici è vergognosa”, scrive l’ex Segretario di Stato, ora candidata alle primarie del partito democratico in vista delle presidenziali di fine anno. Poi avverte: “Domani esporrò un piano per affrontarla”. Appena ventuno parole, in inglese, ma sono bastate per mandare in fumo 15 miliardi di capitalizzazione – il 4% di tutto il settore biotecnologico e farmaceutico – in poche ore.
I titoli più colpiti sono quelli delle case farmaceutiche medio-piccole: Aerie, Immunogen, Retrophin e Ultragenyx hanno perso più del 10%, ma hanno chiuso in rosso tutti gli altri titoli del settore. Alla fine della giornata il Nasdaq, l’indice dei titoli ad alta tecnologia di Wall Street, è stato l’unico a non far segnare guadagni in una giornata nel complesso positiva.
Per una volta l’indice non è puntato su Big Pharma. A lievitare sono i prezzi di farmaci altamente specifici, che le multinazionali smettono di produrre quando non trovano più conveniente produrne quantità tanto piccole. Sui brevetti lasciati liberi si precipitano allora le case farmaceutiche più piccole, che però, impossibilitate ad abbassare i costi, per avere un margine di profitto finiscono per alzare i prezzi. Indiscriminatamente, sostiene la Clinton, in compagnia di molti medici e addetti ai lavori.
I numeri sembrano darle ragione. L’ultimo caso che ha fatto insorgere le associazioni dei consumatori è quello della pirimetamina, in commercio con il nome di Daraprim da più di sessant’anni. Si usa contro infezioni parassitarie, come la malaria o la toxoplasmosi, quando il sistema immunitario del paziente è particolarmente debole, ad esempio a causa dell’AIDS.
Fino a domenica, in America una pillola di Daraprim si pagava 13 dollari e mezzo. Da lunedì – senza che siano cambiati il dosaggio o la formulazione – il prezzo si è moltiplicato di oltre 55 volte, balzando a 750 $. Decisione presa subito dopo l’acquisto dai nuovi titolari dei diritti sul farmaco: la Turing Pharmaceuticals, l’ultima start-up di Martin Shkreli, che a 32 anni ha fama di bambino prodigio della finanza ma non è noto per avere grandi scrupoli.
“Il rischio è che i medici inizino a curare i malati con medicine meno efficaci, ma meno costose”, sostiene Judith Aberg, che dirige il reparto Malattie infettive del Mount Sinai Hospital di New York.
Shkreli, da parte sua, ha difeso il rincaro sostenendo che i guadagni saranno reinvestiti in ricerca, per studiare farmaci più efficaci contro la toxoplasmosi. Ma sul suo conto pesa un precedente che potrebbe mettere tutta la vicenda in una luce diversa. Prima di fondare la Turing, Shkreli faceva parte del CDA di Retrophin, un’altra casa farmaceutica, ma è stato licenziato (e denunciato) con l’accusa di aver gonfiato i prezzi dei medicinali per ripagare debiti contratti nella sua precedente attività di manager di hedge fund.
Il caso del Daraprim non è né unico né raro: i pazienti americani hanno visto aumentare la cicloserina, usata nel trattamento della tubercolosi, da 500 a 10.800 $ la confezione dopo che i diritti sono stati acquistati da Rodelis Therapeutics. Astronomico il rincaro della doxiciclina, antibiotico e antimalarico passato da 20 a più di 1.800 dollari nel 2014.
La presa di posizione di Hillary Clinton segue quella di altri esponenti politici: ad esempio Bernie Sanders, il senatore indipendente – in Europa lo chiamerebbero socialdemocratico – che corre contro di lei alle primarie, sostiene da sempre la necessità di rendere più generoso il servizio sanitario nazionale.
Dell’urgenza della questione si sono accorti anche i legislatori. In sei stati degli USA, tra cui New York, esistono leggi che obbligano le case farmaceutiche a giustificare i rincari, che si aggiungono all’obbligo di dichiarare regali e pagamenti fatti ai medici e a quello di pubblicare i risultati delle ricerche da loro sostenute.
L’industria farmaceutica, in genere, ribatte che i costi di sviluppo sono solo una voce del lungo elenco di fattori che incidono sul costo finale dei medicinali. Ricordano pure che i costi di sviluppo sono lievitati negli ultimi anni. È vero: un rapporto della Tufts University mostra che per immettere un nuovo farmaco sul mercato, l’azienda che lo produce deve affrontare più del triplo delle spese di dieci anni fa. Che la Tufts riceva ingenti fondi dalle case farmaceutiche è dettaglio di pubblico dominio, ma in America, dove a finanziare la ricerca sono molto più i privati che l’erario, questa è la prassi. Semmai si può obiettare che questo argomento contraddice in parte il precedente e non spiega i rialzi più clamorosi.
Il timore di molti è che il rincaro dei medicinali sia un problema connaturato alla struttura del sistema sanitario americano. Lo sostengono anche molti medici: l’autorevole Mayo Clinic Proceedings ha pubblicato di recente un J’accuse sottoscritto da cento oncologi, che hanno chiesto al governo federale di scendere in campo per negoziare i prezzi con i produttori.
Hillary Clinton ha fatto sua un’altra proposta dei cento medici: quella di consentire l’importazione di farmaci dal Canada, che ha un servizio sanitario sovvenzionato dallo Stato in stile europeo, e quindi prezzi molto più bassi. L’ex segretario di Stato – fa sapere lo staff che cura la sua campagna elettorale – avrebbe anche intenzione di proporre una regolazione più stringente delle pubblicità dei medicinali e una legislazione più permissiva in materia di farmaci generici.
Filippo M. Ragusa
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