Era disposta anche a fare la bidella ma non ha passato il concorso. Ora Sabina Berretta dirige l’Harvard Brain tissue resource center del McLean Hospital di Boston, la più grande banca dei cervelli del mondo. Ma è anche qualcosa di più. La scienziata è l’ennesimo cervello in fuga, l’ennesima eccellenza italiana costretta a fuggire dal nostro Paese che trova fortuna (sotto forma di regolare contratto di lavoro – pensate un po’ – retribuito) all’estero.
“Qualcuno dice che il mio laboratorio somiglia a quello di Frankenstein. Naturalmente non è così, ma, certo, abbiamo 3 mila cervelli nei container. Pochi per le esigenze di una ricerca scientifica che ormai conta su strumenti, quelli sì, fantascientifici”. Dal suo studio, dove dirige un equipe di sette persone più altre 10 solo alla banca dei cervelli, “ma c’è ne sono anche di più grandi“, la Berretta lancia un appello per sostenere le donazioni alla ricerca: al momento, vi sono circa 150 esemplari su cui studiare, “troppo pochi per gli strumenti incredibili che abbiamo. Ora possiamo fare cose davvero straordinarie come catalogare le cellule una ad una. Grazie ai nuovi strumenti e ai nostri studi sconfiggeremo nuove malattie. Ma abbiamo poco tessuto per gli esperimenti. Aiutateci: ce ne serve di più” afferma la scienziata catanese.
Originaria del sud Italia, questa ex sportiva iscritta all’Isef rimane fulminata dalla passione per la medicina, in particolare per la neurologia: “Fu preparando la tesi dell’ultimo anno che scoprii la mia vocazione. Il professore che insegnava fisiologia all’Isef era un docente di medicina. Entrai nel suo laboratorio dove facevano studi sul cervelletto. Capii subito che era quello che m’interessava davvero. Misi da parte lo sport e cominciai a studiare medicina a Catania” racconta Sabina in un’intervista a Repubblica.
Provare a fare la bidella per continuare a studiare i cervelli. Ma in Italia si sa, niente è così semplice. La nostra ricercatrice però non si arrende e per continuare a svolgere il suo lavoro in laboratorio (regolarmente come volontaria) decide di provare a farsi assumere nello stesso istituto come bidella. “Dopo aver spazzato i pavimenti, insomma, potevo andare in laboratorio e proseguire le ricerche con uno stipendio su cui contare. Non vinsi nemmeno quel posto: eravamo troppi a farne richiesta”.
Così, complice una borsa di studio del Cnr per studiare un anno all’estero, nel 1990 Sabina approda finalmente al Mit di Boston e da lì non si è più fermata né è più tornata indietro.
La Berretta e le sue due equipe lavorano attualmente sul tessuto celebrale per cercare di rilevare i “segni” che malattie oggi considerate incurabili come la schizofrenia o l’Alzheimer lasciano nel nostro cervello, in modo da prevenirli e combatterli.
Tutte le malattie segnano il cervello – ha spiegato la scienziata – I malati di Alzheimer, per esempio, hanno la corteccia atrofizzata. D’altronde a marcare il cervello non sono solo le malattie: ogni esperienza lascia il segno, così come il tempo che passa. Il cervello muta ad ogni nuova informazione. Certo, qualcosa è visibile a occhio nudo, qualcosa solo al microscopio. Come la depressione: difficile da vedere, ma lascia il segno.
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