Lo sgrullone elettorale che ha ridisegnato la mappa della politica e del potere in Italia ha lasciato tanti pulcini bagnati nell’aia. Che le cose sarebbero andate in una certa maniera, ormai, era chiaro a tutti. Da mesi. La valanga, anche se non di queste proporzioni, era nell’aria. Ma la speranza, come si sa, è sempre l’ultima a morire. E fino all’ultimo sia Renzi che Berlusconi, insieme ai responsabili di divorzi, allontanamenti o apparentamenti non graditi, soprattutto a sinistra, hanno sperato che non fosse l’inizio della fine. Tutti nella presunzione dell’arroccamento che vuole sempre gli altri in errore e mai coloro che corrono e concorrono a dare le carte.
I due ex premier, fin da quando Mattarella aveva deciso il ricorso alle urne, avevano sperato nel colpo della domenica, nel pugno cioè che un pugile che sta perdendo pesantemente ai punti un incontro, riesce ad assestare all’avversario, sovvertendo pronostici e match. Renzi e l’ex cavaliere credevano (sul serio) che alla fine, dopo la promulgazione di una legge antidemocratica e demenziale come il Rosatellum, fatta solo per arginare il fenomeno grillino, con un discreto risultato elettorale (bastava non perdere posizioni) ed un patto leonino in termini di larghe intese politiche tra Pd e Fi, magari con il contributo di Denis Verdini, avrebbero potuto puntare ad una legislatura ponte per poi pensare a come superare la notte.
Ma la cosa non poteva funzionare. Per una serie di ragioni che i due leader sconfitti dalle urne hanno volutamente sottovalutato. A cominciare dalla stanchezza che gli italiani provano nel fare i conti, tutti i giorni, con la palude della partitocrazia e dalla sua incapacità a cambiare musica e aria. Questo da solo basterebbe a comprendere il grande boom dei grillini e degli antisistema presenti nello schieramento del centrodestra. Alla fine della giostra, arricchita da due anni di contrasti, sfascio sociale e sottovalutazioni politiche (soprattutto del fenomeno della Lega e del movimento Cinquestelle) fughe, ricatti e grandissima esternazione di una voglia incomprimibile di voler restare aggrappati alle poltrone, cosa è successo? Che gli italiani con i giovani in testa hanno detto basta.
E i numeri stanno lì a dimostrarlo, sia in termini di percentuali con il centrodestra al 37%, e Di Maio, pronto a fare il governo, al 32%, a fronte di un Pd al 18%. Un rapporto di forze che grazie alla stragrande vittoria di Grillo nei collegi uninominali al Sud si fa maggioranza schiacciante in Parlamento. Un quadro che relega Renzi e la sinistra in un ruolo di modestissimi comprimari per la prossima legislatura.
Un finimondo dunque, dentro e fuori del Pd, lacerato da una scissione e da una separazione in casa con i dissidenti della sua linea politica. Un confrontro fratricida scatenato, nel momento in cui, abbandonata la tortuosa strada del dialogo interno, decideva di affrontare i rischi di un confronto elettorale senza la vecchia guardia del partito che faceva riferimento a Bersani e D’Alema, fuori come i giovani virgulti che non volevano sentir parlare di patto del Nazareno.
Conclusioni? Vanno lette attraverso il voto di ieri. Crolla il partito democratico che passa di mano la leadership al centrodestra di Salvini, unica vera, grande novità, insieme all’indiscutibile trionfo di Di Maio e dei suoi uomini. Seccano i rami del cespuglio di quegli oppositori che con l’obiettivo di portare il Pd nuovamente sul fronte dello sterile antifascismo hanno provocato la valanga che ha seppellito la sinistra sia a livello parlamentare che politico.
Muore cosi anche l’ultimo stanco e patetico tentativo di Berlusconi di tornare a cavallo dopo aver perso due appuntamenti importanti, quelli del 1994 e del 2005 quando con maggioranze solidissime ed un partito in grande spolvero aveva ripreso le redini del potere, presto sommerso dai casini giudiziari che lo avrebbero allontanato da Palazzo Chigi come dai propri pur fedelissimi elettori.
Per la sinistra non si tratta certo di tracciare un de profundis ma il voto del 4 marzo 2018 resterà nella storia. Renzi e i suoi con la svolta della Leopolda avevano fatto l’ultima e definitiva scelta in favore di una socialdemocrazia centrista da accreditare in Italia e in Europa. Ieri questo sogno è morto definitivamente anche se il colpo letale c’era stato quel 4 dicembre del 2016 (il numero quattro evidentemente non porta fortuna all’ex sindaco di Firenze) quando sul referendum costituzionale, gli italiani, a stragrande maggioranza, gli voltarono le spalle aprendo la strada al suo lento declino che forse stasera potrebbe concretizzarsi in dimissioni pilotate in attesa di tempi migliori. Ma, al riguardo, è bene tener presente che la bruciante sconfitta di queste ore, è figlia della tracotanza e della superbia con la quale Renzi ed i suoi amici del cerchio più o meno magico, hanno sempre voluto gestire grane micidiali come la crisi delle banche ed il dramma dell’immigrazione insieme all’adozione di leggi strategiche per il lavoro e l’occupazione, senza guardarsi attorno. Ed il conto è arrivato. Dalle urne. Amarissime per lui.
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