Donald Trump prepara l’inversione di marcia sul clima. Il presidente USA in carica ha firmato un decreto che impone di rivedere le soglie di emissione di gas serra fissati nel Clean Air Act, la “legge sull’aria pulita” che riassume le politiche di Barack Obama sull’ambiente.
Reduce da un imbarazzante fiasco a Capitol Hill – il suo piano di abrogare Obamacare è stato bocciato alla Camera dai suoi stessi compagni di partito, i repubblicani, tanto da non arrivare nemmeno al voto in aula – Trump prova a rilanciare la crociata contro l’eredità di Obama sul terreno dell’ambiente.
“Rimetteremo i minatori al lavoro”, dice dopo aver firmato il decreto che nelle sue intenzioni metterà fine alla “guerra al carbone”. I paletti messi da Obama, sostiene, frenano l’industria dell’energia e hanno bruciato migliaia di posti di lavoro (chissà le emissioni). A questo punto è forse il caso di ricordare che Trump sostiene di non credere che sia in atto un riscaldamento del pianeta, teoria generalmente accettata dalla comunità scientifica, con poche eccezioni guarda caso saldamente legate ai grandi nomi dell’industria estrattiva. In campagna elettorale Trump ha twittato che la teoria del Global warming sarebbe “un complotto dei cinesi per danneggiare la competitività delle imprese americane”. E da presidente ha messo Scott Pruitt, un negazionista, alla guida dell’EPA, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente.
È improbabile, comunque, che il risultato del suo ultimo decreto sia la rivoluzione che promette. Prima di tutto glissa sull’accordo di Parigi, sottoscritto nel 2015 da Obama, e che Trump ha promesso più volte di stracciare. A Parigi gli USA avevano preso l’impegno di ridurre le emissioni di carbonio di almeno il 26% nel ventennio dal 2005 al 2025. A cercarla, non si trova nemmeno una ritrattazione del principio – messo per iscritto nel 2009 – secondo cui i gas serra sono tossici per l’uomo.
Un’arma spuntata, dunque: segno che la linea dura del presidente non gode di abbastanza consenso nella sua stessa amministrazione. Anche perché, dopo otto anni di cura Obama, l’industria energetica USA si è rassegnata ad avviare un’epocale conversione alle ultime tecnologie. Licenziando, ma per poi assumere nei settori più promettenti degli ultimi anni, dal fracking – che poi Obama ha provveduto a limitare per legge – al gas naturale e alle fonti rinnovabili come l’energia eolica o solare. Per fare finta di niente e tornare al 2008 servirebbe tutt’altra tecnologia: la macchina del tempo.
C’è anche da tener presente che le direttive del presidente possono benissimo fermarsi alla frontiera dei singoli Stati, che in molti casi hanno ordinamenti molto più restrittivi di quello federale. Lo stesso Clean Air Act, che ora secondo il decreto andrà ridiscusso, ha obiettivi più ambiziosi dell’accordo di Parigi: imporrebbe una riduzione delle emissioni di carbonio del 32% entro il 2030.
Secondo Carlo Carraro – vicepresidente dell’IPCC, il gruppo intergovernativo ONU sul cambiamento climatico, organismo che ha vinto il Nobel per la pace nel 2007 – le conseguenze dell’inversione di marcia saranno “più importanti a livello internazionale”. Come minimo, sarebbe più complicato per tutti accettare di rispettare l’accordo di Parigi.
“Che senso avrebbe per molti paesi continuare gli sforzi per la riduzione delle emissioni”, si chiede Carraro, intervistato dall’agenzia ANSA, “quando gli Stati Uniti si tirano indietro?”
“Nessuno vuole fare un passo in questo senso senza gli Stati Uniti”, continua l’esperto, “per paura di perdere competitività”. Il discorso vale a maggior ragione per Stati come India e Cina, dove l’industrializzazione recente ha fatto impennare l’inquinamento per ragioni legate sia alla scala – i due Paesi sono i soli ad avere più di un miliardo di abitanti – sia al livello tecnologico.
“In generale”, conclude Carraro, “la negoziazione internazionale in materia di ambiente dipende dalla posizione degli USA”.
F.M.R.
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