Siamo davvero in tempo di guerra? Mentre i cittadini segregati in autoisolamento domestico, ondeggiano tra il pessimismo delle teorie complottiste e il gioioso menefreghismo di chi ignora i divieti di circolazione, ci sono in effetti una serie di segnali nella cronaca nazionale, e internazionale, che sembrano riportarci ai racconti dei nonni. E non si tratta solo dei gabinetti di guerra invocati da certa politica.
Per esempio, una parola che non si sentiva da almeno 80 anni è “riconversione industriale”. La globalizzazione ci aveva abituato piuttosto alla “delocalizzazione” che ha sparpagliato per tutto il globo le diverse attività produttive, portandole là dove i lavoratori costano meno e non hanno diritti. La cronaca al tempo del coronavirus però ci ha portato alla dolorosa scoperta che in caso di necessità taluni Stati, persino quelli considerati alleati, possono frenare o addirittura rifiutare le importazioni di prodotti divenuti indispensabili. E allora ecco che torna alla ribalta la vecchia riconversione industriale. Sono bastati pochi giorni di emergenza perché le aziende tessili di tutto il territorio, ma anche quelle dell’alta moda come Fendi, Armani, Gucci, Ferragamo, Celine, Valentino, Prada, per fare qualche esempio, iniziassero a riorganizzare i propri stabilimenti in Italia per destinarli alla produzione di camici monouso e mascherine. Bulgari e l’Erbolario, insieme all’azienda Davines di Parma e al colosso farmaceutico Menarini invece, stanno trasformando i propri laboratori di prodotti cosmetici in fabbriche di gel igienizzante. La corsa alla riconversione non si ferma qui, la bolognese Siare Engineering, maggior costruttore italiano di ventilatori polmonari, utilizzati nei reparti di terapia intensiva, ha chiesto aiuto a Ferrari e Fiat Crysler per poter soddisfare le richieste degli ospedali. E ora, Confindustria Dispositivi Medici cerca chi possa dare una mano nella realizzazione dei tamponi.
Un secondo elemento, che ci riporta ai tempi di metà Novecento, è la constatazione che la crisi dà impulso alla ricerca. Dopo anni di tagli sistematici ai fondi per la ricerca scientifica, in Italia ma anche negli USA di Trump, a gran voce si invoca il suo intervento. Effettivamente la creatività dei ricercatori, ama esprimersi in momenti come questi, in cui liberi dall’obbligo di dimostrare che valgono i soldi spesi per finanziarli, possono concentrarsi su ciò che sanno fare meglio: analizzare i problemi e trovare risposte. Sin dall’inizio dell’emergenza la nostra ricerca scientifica ha dato il meglio di sé riuscendo ad isolare il virus grazie alle ricercatrici precarie del laboratorio di Virologia dell’Inmi Spallanzani. Lo stesso istituto, insieme ai ricercatori di tutta italia, è ora al lavoro per realizzare un vaccino o per trovare medicinali in grado di fermarlo.
Non è da meno l’innovazione industriale, ne è un esempio l’invenzione dei giovani imprenditori di Isinnova, una start-up bresciana, che vedendo aumentare i malati in terapia intensiva nella propria provincia ha messo a segno un’intuizione davvero brillante, progettando una valvola, creata utilizzando una stampante 3D, che è in grado di trasformare le note maschere da snorkeling della Decathlon in altrettanto valide maschere per la terapia sub-intensiva.
Un ultimo dato che fa riflettere sul fatto che questo sia uno scenario di guerra è la visibilità che finalmente ottengono certe attività che le donne normalmente fanno in silenzio, talvolta in nero, certamente sottopagate se non addirittura gratuitamente. Non serve ricordare l’accelerazione che il secondo conflitto mondiale diede all’inserimento attivo delle donne nel sistema produttivo nazionale, quando furono libere di uscire dalle cucine dove erano state relegate, per andare a sostituirsi agli uomini, impegnati al fronte.
In epoca di Covid-19 sartine, casalinghe, ragazze –madri, rifugiate, suore, hanno immediatamente risposto alla chiamata della propria comunità e si sono messe al lavoro, alcune gratuitamente. Chi ha iniziato a cucire mascherine, chi, come le rifugiate libiche accolte in Niger, a produrre saponette disinfettanti per il Paese che le ospita.
Forse, chissà, questa più che una guerra è una severissima lezione su quali siano davvero le priorità politiche ed economiche di società che credevamo forti e immortali… come noi.
Elisa Rocca
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