I diamanti blu, come il famoso Hope appartenuto alla regina Maria Antonietta, sono l’ulteriore prova dell’enorme meccanismo di riciclo della crosta terrestre. Queste gemme sono infatti colorate da un elemento presente nel fondale degli oceani, il boro, che scivola alla profondità alla quale sono prodotti i diamanti blu, compresa fra 410 e 660 chilometri, grazie al movimento delle placche terrestri. La dimostrazione, alla quale la rivista Nature dedica la copertina, si deve al gruppo coordinato da Evan Smith, dell’americano Gemological Institute of America.
“Questi diamanti sono estremamente preziosi ed è difficile ottenerli a scopi di ricerca”, ha osservato Smith. Inoltre, ha aggiunto “è molto raro trovarne uno che contenga inclusioni di minerali”. Questi minerali sono i resti della roccia in cui il diamante si è formato e contengono informazioni cruciali su come le gemme sono nate. L’analisi dei grani minerali intrappolati in 46 diamanti blu indica che le pietre preziose si sono formate nelle rocce che sono state esposte a condizioni estreme di pressione e temperatura, come quelle che si trovano alla profondità compresa tra 410 e 660 chilometri, ossia al confine tra mantello superiore e inferiore, che sono gli strati compresi tra la crosta e il nucleo terrestre. La maggior parte degli altri diamanti si forma invece a profondità di circa 150-200 chilometri. Secondo l’ipotesi del gruppo di ricerca, il boro, che ha tinto di blu le preziose gemme, proveniva dal fondale marino e nel tempo è sceso nel mantello terrestre grazie ai movimenti delle placche che riciclano la crosta.
Il diamante Hope
Noto anche come blu di Francia, deve la sua celebrità non soltanto alla sua eccezionale bellezza (anche se per dimensioni è ampiamente superato da altri diamanti famosi) ma anche alla sua lunga storia e alla fama di portasfortuna d’eccezione: salvo pochi proprietari – che comunque si trovarono in guai d’ogni sorta – gran parte di coloro che ne hanno potuto vantare il possesso sono morti entro breve tempo per omicidio, suicidio o malattie.
Proveniente dalle miniere di Golconda in India, fu acquistato nel 1688 da un mercante francese, Jean-Baptiste Tavernier. Secondo alcuni fu lui stesso a disincastonarlo dall’occhio della statua di un idolo indiano, Rama-Sitra, scatenando l’ira della divinità, che maledisse la pietra e tutti coloro che l’avessero posseduta. Subito dopo esserne entrato in possesso – comunque ci fosse riuscito – Tavernier fece bancarotta e tentò di ricostituire la sua fortuna partendo per l’India, ma non giunse mai a destinazione perché morì durante il viaggio.
Il successivo proprietario, il re di Francia Luigi XIV, lo fece tagliare a forma di cuore, riducendone le dimensioni dagli originari 112 a 67,5 carati. Sia lui che il suo successore, Luigi XV, lo sfoggiarono in numerose occasioni ma, pur avendo avuto entrambi una vita abbastanza lunga (rispettivamente 77 e 64 anni), morirono entrambi a causa di malattie molto dolorose: Luigi XIV per cancrena a un coscia, mentre Luigi XV per vaiolo.
Il diamante fu quindi donato a Maria Antonietta, che lo unì ad altre pietre preziose a formare una collana, ma sia lei che il marito (Luigi XVI) finirono decapitati durante la Rivoluzione francese ed il diamante fu rubato insieme ad altri gioielli ed oggetti preziosi. Passò poi nelle mani di un gioielliere che morì di infarto non appena la pietra gli fu rubata (secondo altre fonti quando scoprì che il ladro non era altri che suo figlio). Il figlio del gioielliere, presunto autore del furto, non appena seppe di essere la causa della morte del padre, si suicidò. Un suo amico, che aveva trovato il diamante tra i beni lasciati incustoditi, morì dopo pochissimo tempo.
La gemma passò rapidamente di mano in mano e giunse a Londra nel 1830, dove fu nuovamente tagliata, raggiungendo la forma ed il peso attuale di 45,5 carati. Il nobile inglese Lord Francis Hope, VIII duca di Newcastle, pagò una cifra esorbitante per assicurarsi la gemma e battezzarla con il suo nome, ma – se si vuol dare credito alla presunta maledizione dell’idolo indiano – mal gliene incolse, perché quasi subito dopo aver ricevuto la pietra i rapporti con sua moglie si deteriorarono e la coppia si divise. La donna, Mary Yohé, un’attrice e cantante statunitense di musical, cadde in miseria, mentre il banchiere si affrettò a liberarsi del diamante.
Il proprietario successivo, Jacques Colot, impazzì e si suicidò dopo averlo venduto al principe Kanitowskij, che a sua volta morì atrocemente, linciato dai rivoluzionari russi. Neanche la ballerina alla quale il principe aveva regalato il diamante si salvò: fu uccisa dallo stesso principe in un raptus di gelosia. Ne entrò quindi in possesso un gioielliere greco, Simon Matharides, che si sfracellò in un burrone prima ancora di ricevere materialmente la pietra. Il successivo proprietario fu il sultano turco Abdul Hamid II, che lo acquistò per 400.000 dollari, ma un anno dopo averlo acquistato fu deposto e impazzì.[2]
Nel 1910 il gioielliere francese Pierre Cartier acquistò la pietra dal successore del sultano e la vendette a Edward Beale McLean, proprietario del Washington Post, che la donò alla moglie. Ne seguì di lì a poco un autentico bollettino di guerra: nell’ordine morirono la madre di McLean, due cameriere ed il figlio primogenito di appena 10 anni (investito da un’auto), mentre i coniugi McLean divorziarono. Seguì l’alcoolismo del marito che – unito a uno scandalo – lo distrusse definitivamente. La moglie Evelyn decise di sfidare la sfortuna e tenne il diamante per sé, continuando a indossarlo finché la figlia non si suicidò nel 1946 con i barbiturici (da notare che nel giorno del suo matrimonio aveva indossato il gioiello della madre). Evelyn morì a 60 anni di polmonite.
L’ultimo proprietario privato che abbia avuto tra le mani il diamante Hope è stato il gioielliere statunitense Harry Winston, che nel 1958 donò la pietra allo Smithsonian Institute di Washington, dove è custodita tuttora, esposta al pubblico in una teca dotata di tutti i più moderni sistemi di sicurezza.
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