Nairo Quintana con il trofeo "Senza Fine" e la bandiera colombiana
E’ andata agli archivi la 97° edizione del Giro d’Italia. Non un Giro qualunque. Lo ricorderemo a lungo perchè ricco di emozioni, di nomi nuovi (come il nostro Fabio Aru), perchè ha iscritto nel proprio albo d’oro il nome di un rappresentante di un paese, la Colombia, da tempo protagonista nelle corse a tappe ma che (con l’eccezione di “Lucho” Herrera, vincitore della Vuelta nel 1987) mai era riuscita ad occupare il gradino più alto del podio (e stavolta si è presa la rivincita con gli interessi prendendosi con Uran anche la piazza d’onore), per il maltempo che ha flagellato tutte e tre le settimane di corsa rendendola ancor più dura del pur tostissimo tracciato, per le cadute (costate il ritiro, tra gli altri, anche a due protagonisti annunciati, “Purito” Rodriguez e Michele Scarponi) e anche per le polemiche (vedi il brutto episodio dell’ambiguo messaggio di radiocorsa nella discesa dello Stelvio) e per alcuni eccessi del pubblico (come l’improvvida spinta di un tifoso a Bongiorno sullo Zoncolan).
Lo ricorderemo, soprattutto, come il Giro di Nairo Quintana, il 24 enne colombiano che, dopo un inizio reso difficile da cadute e problemi di salute ( un catarro persistente che reso complicata la respirazione del campione per tutte e tre le settimane di corsa), ha preso il volo, come si addice ad un vero “Condor”, il suo soprannome. Ed è atterrato solo a Trieste, nell’ultima tappa. In rosa.
Era il favorito della vigilia, forte del 2° posto al Tour dell’anno scorso, prima del tappone di Val Martello (autentico snodo della corsa rosa) non lo era più, sopravanzato in classifica e nei pronostici degli addetti ai lavori dal connazionale Rigoberto Uran (anch’egli rafforzato nell’autostima da un piazzamento eccellente, il 2° posto al Giro 2013 dietro Vincenzo Nibali). Ma Quintana ha dimostrato l’esatto significato del detto “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”. Lui ha cominciato a pedalare forte quando contava. Cioè quando la strada ha cominciato a salire vertiginosamente. E non ce ne è stato più per nessuno.
Ma se sul tappone di Val Martello, disputatosi in condizioni di tregenda (con diversi corridori colpiti da principio di assideramento) che ha riportato alla mente dei più anziani la vittoria di Gaul sul Bondone nel 1956 e ai meno attempati l’arrivo di Breukink ed Hampsten in analoga situazione nella tappa del Gavia del Giro 1988, pesa l’ombra della fuga del colombiano mentre gli avversari di classifica si erano fermati ligi alle indicazioni di radiocorsa, dopo il campione sudamericano ha pienamente legittimato il suo successo dominando tutti nella temuta cronoscalata di Cima Grappa e controllando senza patemi, anzi incrementando (tranne che su Uran) il vantaggio nell’ultima fatica, quella andata in scena nella splendida cornice offerta dallo Zoncolan, un autentico stadio naturale. Il Maracanà del ciclismo.
Un successo che ha avuto il potere di catalizzare sul Giro l’attenzione di un intero paese, la Colombia, così distante dal nostro eppure mai prima d’ora così vicino all’Italia. Tutti i giornali locali avevano una foto di Quintana in prima pagina. Tutti i notiziari televisivi aprivano con le imprese del loro eroe. Tutte le radio (che in Colombia hanno ascolti che da noi sarebbero impensabili) non parlavano d’altro. Persino il presidente colombiano, Juan Manuel Santos, ha voluto congratularsi telefonicamente con l’illustre connazionale dopo la tappa dello Zoncolan che aveva, di fatto, sancito la vittoria finale del minuto ( 1, 67 cm per 57 kg, ndr) scalatore. E mai prima d’ora una città italiana, Trieste in questo caso, era stata teatro di una così massiccia invasione da parte di tifosi “cafeteros”. Oscurata persino la nazionale di calcio, considerata tra le sorprese annunciate dell’imminente Mondiale brasiliano.
Ora, conseguita la laurea “rosa”, Quintana si concederà un breve riposo, osservando i suoi più forti rivali, Froome, Contador e Nibali, darsi battaglia lungo le strade del Tour, per poi tornare deciso a conquistare la Vuelta. Il prossimo anno, invece, sarà proprio il Giro la grande corsa a tappe che verrà sacrificata in ossequio ad una programmazione che, al momento, non prevede ancora l’accoppiata Giro-Tour. Un domani, chissà.
Ma, a chi gli ha chiesto cosa pensi della corsa rosa, il vincitore ha già avuto modo di dichiarare: “Con questi colori, dopo questo spettacolo, il Giro è più bello del Tour“. Una bella soddisfazione per tutti noi, non solo per gli organizzatori.
Era all’esordio al Giro, Quintana, e come lui solo Contador (2008), Indurain (1992), Hinault (1980), Pollentier (1977), Gaul (1956), Coppi (1940), Marchisio (1930), Binda (1925), Calzolari (1914) e Ganna (1909) avevano vinto alla prima apparizione.
Tecnicamente, è il classico “grimpeur” puro ma, come ha confermato Cima Grappa, forte anche contro il tempo. Purchè la strada s’inerpichi. Rispetto ad altri specialisti della montagna, però, Quintana ha uno stile diverso: non si alza sui pedali per poi procedere a strappi. La sua è un’azione che prevede un’irresistibile progressione. In questo simile ad un altro fuoriclasse del ciclismo recente, il navarro Miguel Indurain. Cui lo accomuna anche la presenza dietro le quinte di Eusebio Unzue, il manager della sua squadra, la Movistar. Era stato lui il mentore del fenomeno spagnolo.
Rigoberto Uran nella “parentesi rosa” al Giro 2014
Dietro Quintana, in classifica, un altro figlio degli altipiani: Rigoberto Uran. Ad un certo punto in rosa (vi è rimasto per quattro giorni, cinque se si include il giorno di riposo) e divenuto pure il favorito dopo la vittoria nella “cronometro dei vini”. Meno forte in salita del connazionale, Uran si fa preferire sul passo. Ma questo Giro non poteva che decidersi in montagna. Avrebbe potuto vincere solo se i problemi di respirazione del collega lo avessero costretto a rendere molto al di sotto delle proprie possibilità.
Caratterialmente, i due non potrebbero esser più diversi: tanto è ombroso e con l’espressione impenetrabile Quintana (lo abbiamo visto aprirsi ad un sorriso e con una lacrimuccia liberatoria solo dopo lo Zoncolan, con il Giro in tasca), tanto è solare ed estroverso Uran, il colombiano di Brescia (in pratica viene adottato da una coppia senza figli, Beppe Chiodi e Melania Chiarutti, dopo che il padre era stato assassinato da forze paramilitari e la madre caduta in depressione, ndr).
Cadel Evans, anche lui in rosa per quattro tappe
Una sorta di Giro di Colombia, verrebbe da dire. Ma anche d’Australia, almeno nella prima parte. A testimoniarlo le vittorie della squadra “aussie” dell’Orica nella cronosquadre e quelle di Matthews a Montecassino, la doppietta di Rogers (Savona e Zoncolan) con a corollario la maglia rosa indossata da Matthews per 6 giorni e da Cadel Evans per 4 tappe, ultimo sussulto della maglia gialla del Tour 2011, poi costretto a cedere il passo ai più giovani rivali in salita. A 37 anni e mezzo, il canto del cigno per l’australiano di Varese. Sì anche lui adottato dal nostro paese, visto che si allena nel varesotto e si è sposato con una ragazza di Gallarate.
E l’Italia, direte?
C’è, eccome. Si poteva pensare che, in assenza del campione in carica, Vincenzo Nibali (lo “squalo di Messina” ha preferito concentrarsi sulla preparazione al Tour) e, ormai logori Ivan Basso e Damiano Cunego, con il ritiro di Michele Scarponi le nostre ambizioni si sarebbero limitate a qualche gioia di tappa.
Fabio Aru in maglia bianca
Invece, questo Giro dei giovani (età media del podio 25 anni e 2 mesi, come non accadeva dal 1979, il primo Giro vinto da Saronni, con Moser e Johansson a fargli da corona) ci ha fatto scoprire Fabio Aru, 23 enne sardo, nato in un piccolo ospedale a San Gavino Monreale, in provincia di Cagliari, ma cresciuto a Villacidro. Una novità in senso assoluto. Perchè nessuno pensava potesse diventare così forte e farlo così in fretta ( i 24 anni li compirà il 3 luglio). E perchè figlio di una terra, la Sardegna, sì generosa ma piuttosto parca di grandi campioni del pedale. Aru è stato la vera sorpresa di questo Giro: il suo 3° posto è un risultato da incorniciare. Impreziosito da prove d’autore in montagna con la ciliegina sulla torta della vittoria a Plan di Montecampione. Ma anche da una grandissima performance nella cronoscalata di Cima Grappa: solo Quintana andò più forte di lui. Straordinariamente maturo, in rapporto all’età, sullo Zoncolan: partito per attaccare il secondo posto di Uran, trovatosi staccato, ha avuto la lucidità di controllare il francese Rolland che avrebbe potuto insidiargli il gradino più basso del podio. L’unico a potersi togliere la soddisfazione di sopravanzare “El Condor” in montagna. Gli è riuscito ad Oropa (sia pure per pochi istanti) e, soprattutto, a Plan di Montecampione, vittoria che gli è valsa, tra l’altro, il prestigioso Trofeo Bonacossa, premio per l’autore dell’impresa più bella nella singola edizione della corsa rosa.
Ora le quotazioni di Aru sono salite vertiginosamente e la sua squadra, l’Astana, dovrà allargare, e di parecchio, i cordoni della borsa per trattenerlo. Alla porta del sardo c’è già la fila con in testa Bmc e Team Sky. La sua permanenza nella squadra kazaka dipenderà molto anche da come riusciranno a convivere la giovane stella sarda e Vincenzo Nibali.
Ma l’Italia del pedale non è stata solo Aru.
Eccellente anche il 5° posto finale di Domenico Pozzovivo che avrebbe anche potuto ottenere qualcosa in più se non avesse sparato molto presto le sue migliori cartucce, sfruttando l’ottima condizione che lo aveva portato ad un soffio dall’affermazione nella Liegi-Bastogne-Liegi. In montagna ha retto nelle tappe iniziali, ha finito in calo. Ma era comprensibile.
Ottimo Giro anche per Diego Ulissi, vincitore sia a Viggiano che a Montecopiolo.
Splendida prova corale della Bardiani CSF, squadra interamente composta da corridori italiani, capace di ottenere vittorie di tappa con tre diversi alfieri: Battaglin, Canola e Pirazzi.
Una menzione particolare la merita Giacomo Nizzolo, sfortunatissimo nel cogliere ben quattro secondi posti (e un terzo) negli arrivi in volata. Specialità in cui si è rivelato maestro il francese Bouhanni, tre volte primo sotto lo striscione.
Un’annotazione particolare la meritano, infine, i giovani tutti, autentici protagonisti di un’edizione epocale della corsa rosa: dell’età media bassissima del podio abbiamo già detto, ma c’è da segnalare come ben 10 delle 20 tappe (senza contare la cronosquadre, quindi) sono state appannaggio di corridori under 26, le maglie del Giro ( la rosa, la bianca di miglior giovane, la rossa a punti) sono state assegnate ad under 25 con l’unica eccezione di quella azzurra di leader della montagna finita sulle spalle di Arredondo che, per soli 5 mesi, non può più esser considerato un giovane. Senza contare che lo stesso Fabio Aru è l’italiano più giovane a salire sul podio dal successo di Cunego nel 2004.
Un Giro spartiacque, dunque. Lo ricorderemo principalmente per questo: ha segnato un cambio generazionale e, in casa nostra, un ideale passaggio del testimone dai Basso, Cunego e Scarponi ad Aru cui, assieme al 29 enne Nibali, affidiamo con fiducia le chiavi del nostro ciclismo nelle grandi corse a tappe.
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