George Martin, il produttore che lavorò con i Beatles per tutti gli anni ’60, è morto ieri a 90 anni. A darne notizia, stamattina, è stato Ringo Starr: “Dio benedica George, che riposi in pace, con amore a Judy e alla famiglia, Ringo e Barbara”.
In carriera Martin ha vinto sei Grammy ed è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame. Nel 1996 è stato insignito dei titoli di Commendatore dell’ordine dell’Impero britannico e Knight Bachelor, due alte onorificenze concesse dalla Corona britannica.
Nato a Londra nel 1926, impara a suonare il piano e l’oboe da ragazzo, ed esordisce negli anni ’50 come compositore ed esecutore di pezzi strumentali. Poi sceglie di lavorare in studio. Dopo una breve esperienza alla BBC, approda alla Parlophone nel 1955, dove produce singoli di Shirley Bassey, Cilla Black e Gerry and the Pacemakers.
Alla Parlophone avviene l’incontro che segna la sua carriera: nel 1962 l’intraprendente ex-direttore di un negozio di dischi di Liverpool, Brian Epstein, gli fa ascoltare un nastro inciso dal complesso che gestisce, già rifiutato dai concorrenti della Decca. Sulle prime Martin non ne rimane granché colpito, ma l’insistenza di Epstein lo convince a concedere un provino al quartetto. Il lavoro non inizia sotto i migliori auspici: George Harrison ha da ridire sulla sua cravatta, lui sul modo di suonare di Pete Best, il batterista. Ma negli otto anni che seguono – mentre al posto di Best arriva Ringo Starr, già componente di Rory Storm & the Hurricanes – la collaborazione fra Martin e i Beatles cambia per sempre il volto della musica leggera.
La sua influenza sul suono della band gli fa guadagnare il soprannome di quinto Beatle. Produce le registrazioni, interviene negli arrangiamenti, dirige quasi tutte le parti orchestrali e a volte si cimenta anche dall’altra parte del vetro dello studio: suona decine di parti di piano non accreditate, tra cui l’assolo accelerato di In My Life. Soprattutto spinge i quattro a rendere più elaborato e più raffinato il processo creativo, incoraggiandoli a uscire dagli schemi del rock and roll anni ’50 e a coltivare la loro fame di sperimentazione. Gli effetti sulla musica dei Beatles, e quindi su tutta la produzione degli anni ’60 e ’70, sono incalcolabili.
Lavora con i quattro anche dopo che il quartetto si disintegra, e si dice sollevato di non essere più costretto a trasformare tutte le registrazioni che tocca in numeri uno. Ma la sua abilità e la sua fama spingono comunque in classifica quasi tutte le produzioni di cui si occupa. Dagli anni ’90 i suoi impegni professionali si diradano a causa di problemi all’udito, ma ottiene comunque un successo mondiale con la versione di Candle in the Wind registrata da Elton John in occasione della morte della principessa Diana.
Nel frattempo si dedica alla beneficenza, collabora con il Prince’s Trust e viene nominato vicepresidente di Deafness Research UK, un fondo che si occupa di finanziare la ricerca sulla sordità.
Alla notizia della sua scomparsa Twitter è stata invasa dai messaggi di cordoglio. Il premier britannico David Cameron lo ha definito “un gigante della musica”. “Sono talmente colpito che non ho più tante parole”, ha scritto Sean Lennon, il figlio di John Lennon e Yoko Ono.
L’annuncio, però, ha generato anche un insolito equivoco. Invece di sir George Henry Martin, diversi utenti dei social network hanno creduto che fosse morto George R. R. Martin, l’autore della saga fantasy Cronache del ghiaccio e del fuoco, da cui è tratta la serie tv Il trono di spade. Negli ultimi anni – soprattutto da quando nel 2007 è morto Robert Jordan, l’autore del ciclo della Ruota del tempo – parecchi fan si sono detti preoccupati che la saga resti orfana. Ad alimentare i loro timori ci sono i ritardi nella consegna del sesto libro, che sarebbe dovuto uscire tra il 2014 e il 2015.
F.M.R.
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