Sarà Juventus-Lazio la finale della Coppa Italia 2014/15. Questo il verdetto delle due attese semifinali di ritorno della competizione che hanno rovesciato le indicazioni fornite dai match dell’andata che avevano consegnato un certo margine di vantaggio (nel caso della Fiorentina, anche piuttosto ampio) alle squadre impegnate in trasferta un mese fa.
Martedì la Juve, pur in versione ampiamente rimaneggiata per via via degli infortuni di lungo corso (Pirlo e Pogba su tutti) e per la scelta di tenere precauzionalmente a riposo gli acciaccati dell’ultimo minuto (Tèvez e Lichtsteiner) oltre che per la consuetudine di accantonare Buffon per dar spazio al portiere di coppa (il pur ottimo Storari), ha fatto un sol boccone di una Fiorentina bloccatasi (e non è la prima volta) sul più bello. Uno 0-3, quello di Firenze, che non può non richiamare l’eco della straordinaria notte di Dortmund. Altra occasione da dentro o fuori. Altra dimostrazione di come Allegri abbia saputo plasmare un gruppo in grado di elevare il livello delle proprie prestazioni nel momento topico. Tipico delle grandi squadre. Da quando i bianconeri hanno virtualmente prenotato in bacheca un posticino per il quarto scudetto consecutivo si sono sprecati i dibattiti su quale versione juventina sia da considerarsi quella migliore: quella più aggressiva e a tratti straripante del Conte nazionale o quella più razionale ma meno frenetica e più solida dietro di Max Allegri. A dispetto dell’ottimo cammino nelle due coppe che vedono ancora gagliardamente in corsa gli uomini del tecnico toscano, l’impressione è che si tratti di due corazzate ambedue fortissime ma diverse e che accordare la preferenza all’una piuttosto che all’altra sia solo questione di gusti. Quanto alla Viola, un brutto scivolone che ridimensiona un pò la portata della pur splendida stagione gigliata. Ma anche l’occasione per riflettere sui limiti di personalità che ancora attanagliano la squadra di Montella.
Senad Lulic, ancora decisivo
Ieri sera, invece, è andato in scena al S. Paolo un match ben più equilibrato e dall’esito incerto sino al fischio finale. L’ha spuntata, e proprio quando il tempo sul cronometro cominciava a scarseggiare, la Lazio. Gli uomini copertina dell’ennesima tessera del formidabile puzzle della stagione biancoceleste sono stati Felipe Anderson (e lo si poteva immaginare) e Senad Lulic (molto meno, visto il recente rientro dopo una lunga indisponibilità e la partenza in panca). Il brasiliano, nel momento-chiave della sfida in cui la Lazio ha dovuto provare a forzare i ritmi (gli ultimi venti minuti), è stato sistematicamente cercato dai compagni e, nonostante la giovane età, ha dimostrato di non soffrire affatto l’investitura a leader tecnico della formazione capitolina, caricandosi letteralmente sulle spalle il peso dell’attacco senza farsene schiacciare. Il bosniaco, invece, pare avere un abbonamento personale ad un poltrona in prima fila ogni volta che la stagione entra nella fase decisiva e il proscenio si chiama Coppa Italia. Suo il gol decisivo (su assist al bacio del brasiliano) e suo anche il clamoroso salvataggio a pochi passi dalla linea di porta difesa da un peraltro impeccabile Berisha (altro protagonista inatteso) ad impedire che l’incursione del vivacissimo neoentrato Insigne (altro bentornato) si trasformasse nella più comoda delle assistenza per il lungodigiunante Callejòn. Un gesto tecnico, quello di Lulic, importante quanto la rete ma tecnicamente anche più complicato. Ciò che colpisce, però, è l’immagine di compattezza dell’intero complesso biancoceleste, forgiato tassello su tassello dal più sottovalutato tecnico della nostra serie A, Stefano Pioli. Suo il capolavoro di maggior pregio. Intelligente nell’approcciare la gara senza farsi condizionare dall’assillo della ricerca scriteriata del gol immediato, sua la decisione di rivoltare come un calzino l’assetto tattico della squadra quando, nel secondo tempo, il centrocampo iniziava ad accusare il peso di dover supportare le tre punte, per inserire prima Mauri e poi il futuro match-winner, passando dal 4-3-3 iniziale che mostrava preoccupanti scricchiolii all’abituale (e più equilibrato) 4-2-3-1. Anche fortunato, se vogliamo, nell’occasione perchè una condotta di gara di questo tenore nasconde sempre insidie quando il tempo scorre veloce. Ma la scelta dell’attacco ragionato ha premiato ad onta delle tante occasioni fallite da un Napoli che, però, a dispetto delle parole del post match di Rafa Benitez, non si può appellare solo alla sfortuna. I partenopei non giocano un calcio organico e quando trovano la porta lo fanno solo grazie a fiammate individuali, ma senza coralità di manovra. E se si aggiunge la rinuncia al meno inaffidabile tra i difensori in rosa, Koulibaly, il quadro è completo.
Notte insonne per il tecnico spagnolo, di festa per quello laziale.
Il 7 giugno, all’Olimpico, di scena lo spettacolo della finale. E che, stavolta, l’impianto romano sia teatro di una festa per tutto lo sport. In campo e sugli spalti.
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