In Spagna è finita l’epoca del bipartitismo. Nel parlamento uscito dalle elezioni legislative di ieri, che si riunirà per la prima volta il prossimo 13 gennaio, non c’è una maggioranza chiara per la prima volta dopo la caduta del franchismo e il ritorno della democrazia.
Il Partito popolare (PPE) del premier Mariano Rajoy è ancora il primo del paese, ma ha perso la maggioranza assoluta alla camera bassa – 176 seggi su 350 – passando da 187 a 123 deputati (28,7% dei voti), e non potrà governare da solo. Alle sue spalle il Partito socialista dei lavoratori (PSOE), guidato da Pedro Sanchez, resiste al secondo posto con 90 seggi e il 22%.
Dopo gli ottimi risultati ottenuti nei mesi scorsi alle elezioni regionali, irrompono anche alle Cortes Generales i due nuovi partiti anti-casta eredi degli Indignados: Podemos (“Possiamo”), guidato da Pablo Iglesias, che ha ottenuto 69 seggi (20,7%), e Ciudadanos (“Cittadini”), di Albert Rivera, che ne ha conquistati 40 (13,9%).
Il premier designato è ancora Rajoy, candidato del partito di maggioranza relativa, ma lui stesso riconosce che il compito non è facile e che “sarà necessario parlare molto e raggiungere accordi”. Per rimanere al governo, il PPE dovrà formare una coalizione. Alla vigilia delle elezioni il premier non aveva escluso questa possibilità, ma gli altri leader gli avevano risposto con una certa freddezza.
Secondo la legge dei numeri, i popolari non avrebbero la maggioranza nemmeno sommando ai propri voti quelli di Ciudadanos, l’unico partito che alla vigilia aveva lasciato intendere di essere ben disposto a sostenerli. Appare estremamente improbabile che il PPE riesca ad accordarsi con Podemos: il partito “viola” si è alleato con liste indipendentiste in Catalogna e nei Paesi baschi, circostanza che gli ha permesso di essere il più votato in quelle regioni, tradizionalmente appannaggio di partiti locali. Podemos ha vinto perché si è fatto portavoce nazionale dei localismi ai quali l’esecutivo di Rajoy si è sempre opposto con forza. Nel suo programma elettorale compaiono la ristrutturazione multinazionale dello Stato e il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Il segretario Iglesias si è detto personalmente contrario alla secessione, ma convinto che la scelta spetti ai catalani. Posizioni difficili da conciliare con quelle espresse da Rajoy, che ha fatto di tutto perché quel referendum non si tenesse sotto il suo mandato; ed è facile immaginare che un accordo fra i due partiti risulti estremamente sgradito ai loro elettori.
L’ago della bilancia potrebbe essere il PSOE. Il partito ha perso milioni di voti: secondo Iglesias, il suo risultato è stato “il peggiore dalla fine della dittatura franchista”. Ma i suoi seggi sommati a quelli del PPE totalizzano un’ampia maggioranza che potrebbe sostenere un governo di larghe intese. Lo aveva auspicato prima delle elezioni l’ex premier Felipe Gonzalez, che non ha mai fatto mistero di non voler vedere i partiti anti-casta al governo. La coabitazione sarebbe senza dubbio scomoda, ma rassicurante per i mercati – alla riapertura dopo il voto, la borsa di Madrid ha perso subito il 2,1% – e per gli alleati a Bruxelles – come la cancelliera federale tedesca Angela Merkel, che a sua volta in Germania ha alle spalle un’altra Grosse-koalition.
Ma la fattibilità di un’alleanza “contronatura”, così come della sua versione minimalista – un governo di minoranza PPE con l’appoggio esterno del PSOE – resta tutta da dimostrare. Anche qui pesano i toni esasperati della dialettica politica, con il precedente del litigio in diretta tv tra Rajoy e Sanchez.
Dopo lo spoglio delle schede elettorali, il giovane segretario socialista ha riconosciuto che gli onori e gli oneri della formazione del nuovo governo spettano al suo più navigato rivale, e si è congratulato con lui prima di ritirarsi nella comoda posizione di spettatore interessato. Se tutti i tentativi di Rajoy dovessero fallire, il PSOE può provare ad allearsi con Podemos e alcuni partiti minori in una coalizione eterogenea tendente a sinistra, ma ottenendo una maggioranza in ogni caso fragile e risicata.
In una situazione così instabile, potrebbe risultare prezioso il ruolo di mediazione del giovane re Felipe VI. Il figlio di Juan Carlos, sul trono da poco più di un anno, potrà fare leva sull’unità nazionale – di cui è il simbolo vivente – e sulla governabilità.
Secondo la costituzione tocca al re nominare il nuovo premier in base ai risultati delle elezioni. La prassi vuole che l’investitura avvenga dieci o quindici giorni dopo la costituzione formale delle nuove camere delle Cortes Generales, convocate per il 13 gennaio. È facile immaginare che i colloqui e le trattative dureranno per la maggior parte del prossimo mese. Lo scenario che tutti vogliono evitare è che non si riesca a formare un esecutivo, il che porterebbe a sciogliere le Cortes e convocare nuove elezioni anticipate.
Filippo M. Ragusa
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