Il Paradiso dipende da noi. Chiunque voglia vive nell’Eden, nonostante Adamo e la cacciata.
“La reclusa più amata d’America”, così è stata definita Emily Dickinson, la poetessa che a 25 anni decise di chiudere fuori il mondo esterno e di non uscire più dalla casa paterna ad Amherst, nel New England, per dedicarsi ai suoi versi.
Ma a quanto pare l’autrice di quelle oltre 1800 poesie scritte nel corso della sua vita solitaria, non era solita coltivare solo il proprio universo interiore ma anche rose, gigli, garofanini, narcisi, fritillarie, malvoni, anemoni, dalie, gli Aster, le digitali, le salvie e anche i melograni.
Ora il giardino della poetessa avrà la possibilità di rinascere di nuovo, grazie all’apertura di uno scavo “archeo botanico” per recuperare semi “d’epoca” nel terreno circostante ‘Homestead’ la casa dei Dickinson, divenuta sito museale nel 2003. “La casa e il giardino erano il suo laboratorio poetico”, ha detto la direttrice del museo Jane Wald, che ha parlato di circa 350 citazioni di fiori nei testi, soprattutto di rose ma anche di margherite o trifoglio.
Se leggo un libro che mi gela tutta, così che nessun fuoco possa scaldarmi, so che è poesia. Se mi sento fisicamente come se mi scoperchiassero la testa, so che quella è poesia. È l’unico modo che ho di conoscerla. Ce ne sono altri? (citato nell’introduzione a Poesie, 1992)
Colei che pubblicò solo sette testi quando era in vita, contribuì a rompere la tradizione, strano a dirsi, anche nel giardinaggio, coltivando piante rare (per l’epoca) come gelsomini, gardenie, camelie e orchidee con la stessa dedizione con cui formulava metafore fin troppo innovative per i suoi contemporanei.Il legame con la natura non fu mai spezzato neanche nei momenti di estasi creativa, dal momento che la Dickinson fa riferimento nei suoi scritti quasi 600 volte alle piante, nominandole più di 60 varietà.
“Non l’ho ancora detto al mio giardino per paura che mi possa soggiogare”. L’idea di una donna reclusa fino al giorno della sua morte, a 55 anni, e per sua stessa volontà, dedita a coltivare rose, forse stride con quello della poetessa ribelle, che scelse di scrivere guidata dalla propria mente più che dal proprio cuore, perseguendo nella vita la sua personale idea di felicità. Ma se grattiamo sotto la superficie ci accorgiamo di una complessità che non ha niente a che vedere con i pallidi stereotipi femminili presi in prestito dall’Ottocento Puritano.
Pur essendoci nelle sue poesie molti riferimenti alla Bibbia e a Gesù, la Dickinson si rifiutò di seguire le funzioni in Chiesa. Ciò nonostante ella non smise mai di porsi in dialogo con un Dio che lei sentiva come assente, come Colui che non risponde, ma al quale non è possibile smettere di fare domande.
Molte le poesie da citare, alcune talmente famose da essere citate da Emil Cioran o Woody Allen, ma tra quelle meno note ce n’è forse una che non richiama i grandi interrogativi universali. Essa svela, forse solo come espediente poetico, chi può dirlo, una delusione tutta umana, tutta femminile. Qualcosa che ce la fa sentire meno eterea e distante, annoverandola allo stesso tempo tra le fila dei grandi poeti, custodi di un mondo segreto a noi precluso, tra coloro che alle cose mortali si mischiano, ma non si macchiano.
Tanto precipitò nella mia stima Che lo sentii battere per terra E farsi in mille pezzi sulle pietre In fondo alla mia mente. Diedi la colpa al fato che lo spinse Ma ancor di più rimproverai me stessa D’aver tenuto oggettini placati Sulla mensola dell’argenteria.
Laurea magistrale in Storia contemporanea presso L'Università degli studi Roma tre. Master di primo livello I mestieri dell’Editoria, istituito da “Laboratorio Gutenberg” di Roma con il patrocinio del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale presso “Università Sapienza di Roma”. Dopo la laurea ho svolto uno stage presso Radio Vaticana, dove ho potuto sperimentare gli infiniti linguaggi della comunicazione.
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