Più che preoccupato era un presidente della Repubblica irritato quello che stasera, alle venti, ha dovuto comunicare agli italiani che il pasticcio ferragostano delle dimissioni del governo giallo-verde di Giuseppe Conte, resta senza soluzione. Almeno fino a martedì prossimo, quando i tre interlocutori principali di questa assurda sciarada e cioè Di Maio per i Cinquestelle, Salvini per la Lega e Zingaretti per il Pd, non diranno a chiare note se sono in grado o meno di dare un governo al Paese.
Mattarella in un accordo ci sperava. Tanto. Evidentemente aldilà delle schermaglie, delle bugie e delle ambiguità che sempre caratterizzano le trattative per la formazione di maggioranze ed esecutivi, trattative serrate e agitate sicuramente c’erano state. E molti, soprattutto nell’arcipelago dei trombati delle elezioni del 2018, Pd e cespugli più o meno rossi in testa, al ribaltone ci avevano creduto e continuano a crederci. In perfetta simmetrica sintonia con le note pesanti e gli strappi a base di insulti e colpi bassi che leghisti e grillini si sono scambiati fino a qualche ora fa.
L’incredibile stupidaggine di Salvini di aprire una crisi al buio alla vigilia di Ferragosto è stata ormai metabolizzata. Tutti hanno preso atto che quel colpo di sole all’ombra di spiagge e mutande va superato. A destra si accarezza l’idea di un nuovo voto che cancelli l’esperienza giallo verde e metta definitivamente all’angolo, almeno per questa legislatura, un partito democratico men che mai unito e prossimo ad una ulteriore dolorosa scissione targata Renzi.
I sondaggi di queste ore, in maniera inversamente proporzionale agli schiaffi presi in Parlamento e nelle sale riservate della politica, parlano ancora di un leader leghista con il vento in poppa e con tutti gli altri fermi al palo. Strano Paese l’Italia che nei momenti di maggiore confusione, contrariamente alla logica dei fatti, sembra destinato a non perdere quasi mai la bussola. Buon segno ma insufficiente al momento per dire che dalla crisi si potrà uscire presto e soprattutto con pochi danni.
Mattarella ha preso atto che la nuova maggioranza che avrebbe dovuto imprimere una svolta “in tempi brevi” alla crisi, in effetti non esiste. Anzi, oggi, alla fine della consultazione, Di Maio uscendo dal Quirinale ha disegnato un percorso d’intesa in dieci punti. Un percorso, è bene dirlo, che sposa meglio le disponibilità politiche della Lega che non quelle espresse nei tre punti base, peraltro ruvidamente ultimativi, enunciati (non all’unanimità secondo i renziani) dal segretario Zingaretti che ai grillini ha mandato a dire: via i decreti sulla sicurezza e ritorno al passato in materia di immigrazione, nessun taglio al numero dei parlamentari e accordi preventivi sulla legge di bilancio prossima ventura. Punti pesanti e “non negoziabili”.
A questo punto viene da chiedersi se il segretario Pd abbia letto i paletti fissati dal movimento dei 5 stelle.
Al primo punto c’è proprio il taglio dei parlamentari. Subito dopo il pesante affondo sull’immigrazione. Per quella clandestina e fuori controllo non si fa un passo indietro. Di Maio non intende mollare su quelli che restano obiettivi “prioritari”, non negoziabili: i decreti non si toccano come restano al loro posto le proposte per la nuova finanziaria in materia di cuneo fiscale, flat tax e quota cento.
Se a questo poi si volessero aggiungere le aperture verso l’autonomia differenziata che Di Maio vuole riconoscere a regioni come il Veneto la Lombardia (una richiesta pilastro della Lega di Salvini) e le spine sanguinanti della riforma della magistratura e del sistema bancario (non dobbiamo dimenticare i cori grillini su Lotti e Palamara quando si parlava di Renzi, banche e giudici) allora tutto appare per quello che è: una salita feroce da Giro d’Italia.
Domani dopo i primi incontri tra Pd e M5S ne sapremo di più. Ma sia Di Maio che Zingaretti dovranno venire con carte e proposte vere perché Mattarella è stato chiaro. In assenza di accordi scolpiti nella pietra non può esserci mandato. Stesso discorso per quanto riguarda la Lega che a questo punto può ripartire proprio da quei dieci punti che ricalcano per molti aspetti quell’accordo di governo naufragato sulle spiagge della Rimini ricca e godereccia.
Conclusioni. Se entro martedì non ci sarà intesa tra due dei tre interlocutori chiamati a gestire la crisi, il capo dello Stato sarà costretto a varare un governo tecnico-istituzionale cui sarà affidato l’incarico di portare gli italiani alle urne (scelta quanto mai saggia) e magari preparare una bozza di finanziaria in grado di coprire gli adempimenti previsti entro la metà di ottobre, sia dalla legge italiana che dalle norme Ue.
Enzo Cirillo
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