La Turchia “non ha richiesto alcuna presenza militare aggiuntiva” alla NATO. Lo ha dichiarato il Segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, dopo il vertice straordinario che si è tenuto oggi a Bruxelles.
Dal sito del quotidiano Hurriyet, il presidente Recep Tayyip Erdogan afferma che Ankara “continuerà le operazioni militari contro l’ISIS e il PKK”.
Ieri, intanto, il governo turco ha concluso un’intesa di massima con gli USA sull’istituzione di una “zona protetta” ai confini con la Siria in chiave anti-ISIS.
Si dovrebbe trattare di una zona cuscinetto estesa per la profondità di un centinaio di chilometri lungo il confine turco-siriano, dalla sponda ovest del fiume Eufrate al Mediterraneo.
In cambio, Ankara parteciperà ai bombardamenti contro postazioni dell’autoproclamato Califfato in territorio siriano e concederà agli Stati Uniti l’uso della base aeronautica di Incirlik.
Come scrive il Washington Post, che cita funzionari americani e turchi, la zona protetta potrebbe essere attrezzata per fornire accoglienza agli oltre due milioni di profughi della guerra civile siriana rifugiati in Turchia.
Fonti dell’amministrazione USA hanno spiegato al New York Times che il piano non è esplicitamente pensato per danneggiare il presidente siriano Bashar al-Assad, anche se prevedibilmente finirà per ottenere quello scopo.
La possibilità di usare la base di Incirlik, unita alla disponibilità delle forze aeree turche, amplificherà potenza e frequenza dei raid americani contro le postazioni ISIS in Siria e nel nord dell’Iraq.
Non si istituirà invece una no-fly zone. Per chiudere lo spazio aereo a tutti i velivoli siriani, infatti, servirebbe il voto favorevole del Consiglio di Sicurezza ONU, che sarebbe con ogni probabilità bloccato da Russia e Cina, potenze che sostengono Assad.
A preoccupare di più gli alleati della Turchia è la rottura della tregua con i separatisti curdi, che durava da due anni.
Il PKK ha ripreso a compiere e rivendicare attentati contro le forze di sicurezza fedeli ad Ankara dopo la strage di Suruç, costata la vita a 32 ragazze e ragazzi che stavano partecipando a un’iniziativa promossa da un partito affiliato all’HDP – la confederazione antinazionalista di sinistra che ha raccolto vasti consensi fra i curdi alle elezioni dello scorso giugno – per la ricostruzione della città di Kobane, nel Rojava, il Kurdistan siriano, devastata da un lungo assedio dell’ISIS.
Numerose forze politiche, tra cui l’HDP, hanno accusato le autorità di Ankara di non aver fatto abbastanza per prevenire la strage, compiuta materialmente da un attentatore suicida di nazionalità turca. Nel mirino in particolare è finita l’insufficiente sorveglianza da parte del confine turco-siriano da parte delle forze di sicurezza.
Altri si sono spinti ad accusare il governo turco di aver abbassato di proposito la guardia per consentire all’ISIS di resistere alle offensive delle YPG, le milizie curde, per evitare di galvanizzare la popolazione curda che vive all’interno dei confini turchi.
Il “processo di pace” con i curdi, secondo quanto ha dichiarato il presidente Erdogan, potrà continuare solo se finiranno gli “attacchi all’unità nazionale” dello Stato.
Ma agli attentati contro poliziotti e infrastrutture sensibili – ultimo, ieri, l’incendio di un gasdotto nella provincia di Agri, ai confini con l’Iran – Ankara ha risposto bombardando i campi d’addestramento gestiti dal PKK in territorio iracheno.
Oltre al governo di Baghdad, la circostanza preoccupa anche Stoltenberg. Il Segretario generale ha ribadito ancora oggi la “forte solidarietà” della NATO alla Turchia, e ha riaffermato che “il terrorismo in tutte le sue forme non può essere mai tollerato o giustificato”, ma ha ricordato che “l’autodifesa deve essere proporzionata agli attacchi subiti”.
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