L’organizzazione per i diritti dei lavoratori Workers rights consortium (WRC) ha presentato recentemente un rapporto sconcertante sul trattamento riservato agli operai etiopi, sottopagati esottoposti ad abusi di ogni genere, da parte della compagnia statunitense Phillips-Van Heusen Corporation (PVH) che produce abiti per marchi di moda di fama internazionale come Tommy Hilfiger e Calvin Klein, e H&M.
Ma andiamo per ordine, la compagnia PVH è tra le maggiori aziende di abbigliamento al mondo, con un fatturato di quasi 10 miliardi di dollari nel 2018 e circa 1 milione di lavoratori nella catena di fornitura disseminata in gran parte tra Africa e Asia, ma soprattutto nei paesi sottosviluppati, dove il costo del lavoro, come è noto, non è regolamentato e, comunque, lontanissimo dai minimi salariali dei Paesi più sviluppati.
Uno studio pubblicato a gennaio, condotto in Etiopia dalla Wage Indicator Foundation – che rende noti periodicamente dati sulla retribuzione dei lavoratori nel mondo – ha rilevato che la maggioranza dei circa 1.000 operai delle fabbriche di indumenti appartenenti alla PVH, ha un salario mensile inferiore a 4,30 birr, circa 144 dollari.
«Sfortunatamente per gli interessati, c’è un divario tra le pretese etiche dei marchi e la realtà per le persone che cuciono i loro vestiti», ha detto Penelope Kyritsis, ricercatrice del WRC. Il rapporto ha rilevato che gli abusi sui diritti dei lavoratori erano molto diffusi nelle fabbriche in Etiopia che forniscono manodopera alla multinazionale svedese H&M.
Mentre il mondo pur disapprovando questo modo di sfruttare la manodopera dei paesi emergenti, non fa assolutamente nulla, i grandi marchi non perdono tempo, e quando cambiano i quadri di riferimento normativi lasciano le produzioni asiatiche, a causa delle maggiori tasse, e si rivolgono ad Addis Abeba per le migliori condizioni salariali. Al punto che la catena americana Gap e la svedese H&M, hanno ritenuto di non garantire nemmeno un salario minino per l’Etiopia. Una circostanza che in verità nessuno combatte e per la quale pochi si mobilitano, in Europa come nei Paesi delle società interessate.
Barbara Ruggiero
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