Il suicidio assistito entra nell’ordinamento italiano. Non con una legge del Parlamento, ma con una sentenza della Consulta. Dopo due giorni di camera di Consiglio, la Corte Costituzionale ha dichiarato “non punibile” chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Nella sostanza, quanto già anticipato un anno fa nell’ordinanza 207, quando aveva dato mandato al Parlamento di modificare l’attuale quadro normativo, che punisce sempre e comunque non solo chi istiga, ma anche chi collabora al suicidio di una persona. In qualunque stato quest’ultima si trovi. Coerentemente poi con la stessa pronuncia, la Corte subordina la possibilità di ricorrere alla “morte a comando” “al rispetto delle modalità previste sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua”, nonché “alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”.
Queste ultime condizioni, precisa la Consulta, si sono rese necessarie “per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018”. Pur ormai con questi vincoli, la Corte continua ad auspicare “un indispensabile intervento del legislatore”.
L’Italia si spacca di nuovo in due, come per l’aborto
La sentenza divide la società e la politica. La parte cattolica la considera “aberrante”. E’ durissima la reazione della Cei. Il segretario generale della Cei, monsignor Russo, intanto, chiede l’obiezione di coscienza per i medici e attacca: “Non comprendo come si possa parlare di libertà, la società perde il lume della ragione”. I vescovi italiani esprimono “sconcerto” e “distanza” dalla sentenza. La preoccupazione maggiore è relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità.
“Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”, scrivono ancora i vescovi che ribadiscono e rilanciano l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati.
Per la psichiatra Paola Binetti, senatrice ex Udc, si tratta di una sentenza “già scritta” che è “conseguenza della pessima legge sulle Dat che noi non abbiamo e che è tutta da smontare!” Innanzitutto “la Costituzione non parla di diritto di autodeterminazione e, pertanto, secondo il nostro punto di vista, non può esistere un diritto al suicidio per mano dello Stato”. Un’aggravante evidenziata dalla Binetti è che “questa sentenza carica di una responsabilità non pertinente i medici (ai quali non è concessa l’obiezione di coscienza, ndr). Il suicidio assistito non può ricadere sui medici, dunque, e sul Servizio sanitario nazionale. Questa è l’assurdità di una legge che impone qualcuno (il medico) a ‘staccare la spina’ senza neppure prevedere l’obiezione di coscienza. Questa è la follia dell’autodeterminazione”.
Dodici anni di lotta sul ‘diritto di morte’
Tra il caso di Piergiorgio Welby (2006), attaccato al respiratore automatico per quasi dieci anni in quanto affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato come ‘distrofia fascioscapolomerale’ che da dieci anni gli impediva di espandere i polmoni, a quello del dj Fabo (2017) tetraplegico in seguito ad incidente stradale, sono stati 12 anni di lotta sul ‘diritto alla morte’. Alla fine della quale è arrivata una sentenza storica.
E’ così che la pensa Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni che aveva dato vita al procedimento sul fine-vita: era stato lui, nel febbraio del 2017, ad accompagnare in una clinica svizzera che eroga il suicidio assistito Fabiano Antoniani, cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale. Ed era stato sempre lui, una volta ritornato a Milano, ad autodenunciarsi ai Carabinieri per creare il caso giuridico e mediatico. “Ora siamo tutti più liberi”, è stato il suo commento a caldo.
”Grazie a Cappato le persone che si trovano nella situazione di dj Fabo ora possono autodeterminarsi”, dice Beppino Englaro, il papà di Eluana, la giovane donna che, a seguito di un incidente stradale, ha vissuto in stato vegetativo per 17 anni, fino alla morte sopraggiunta a seguito dell’interruzione della nutrizione artificiale. Il suo caso decretò l’inizio di un lungo dibattito tra la famiglia sostenitrice dell’interruzione del trattamento e la giustizia italiana, e finì per diventare anche un caso politico sul finire della vicenda. “Dopo tutto il clamore e tutto quello che si è sentito, si può dire che siamo davanti a una sentenza storica. Ora voglio vedere se il Parlamento potrà non attenersi alle indicazioni della Corte Costituzionale”, ha commentato ancora papà Englaro.
Forte perplessità tra i medici
Chi è abituato considerare la morte un rivale da battere, non un alleato dissente dalla sentenza della Corte Costituzionale sul fine-vita proprio perché “si stravolge così totalmente il senso profondo dell’agire medico”. Sono preoccupati e obietteranno in blocco i 4000 medici appartenenti all’AMCI (associazione di area cattolica), mentre per la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli dontoiatri (Fnomceo), il suo presidente Filippo Anelli chiede ufficialmente al Legislatore che “chi dovesse essere chiamato ad avviare formalmente la procedura del suicidio assistito, essendone responsabile, sia un pubblico ufficiale rappresentante dello Stato e non un medico”. Anche Anelli è convito che “ci sarà una forte resistenza da parte del mondo medico”.
Anche la politica si divide
“Sono e rimango contrario al suicidio di Stato imposto per legge”, dice il segretario della Lega Matteo Salvini, mentre il senatore della Lega Simone Pillon, autore nel primo governo Conte del ddl sull’affido condiviso , nel sottolineare come sia” sconcertante che decisioni tanto delicate siano prese a colpi di sentenze” essendo la vita umana è sacra e inviolabile, “ci batteremo perché le persone malate o in situazioni di sofferenza non siano mai tolte di mezzo, ma possano in ogni situazione avere sostegno, supporto e terapie antidolore per poter lasciare serenamente questa vita senza messer costretti a suicidarsi. Qualcuno porterà per sempre questa decisione sulla coscienza”.
Nella maggioranza del governo giallo-rosso il vice segretario del Pd Andrea Orlando chiede invece di seguire la strada indicata dalla Consulta, nella stessa giornata in cui diversi senatori Pd-M5S hanno presentato una proposta di legge per il suicidio assistito.
La Corte in particolare ha ritenuto non punibile a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da “trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Ma ha posto dei paletti. In attesa dell’ indispensabile intervento del legislatore, ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017). Non solo: la verifica delle condizioni richieste (come la irreversibilità della patologia e la natura intollerabile delle sofferenze) e delle modalità di esecuzione deve essere compiuta da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. Si tratta di cautele adottate “per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili”, un’esigenza già sottolineata nell’ordinanza 207 con cui un anno fa aveva sospeso la sua decisione.
Cosa cambia con la sentenza della Consulta
Sono attualmente 800 persone in attesa della ‘dolce morte’ (dati dell’Associazione Luca Coscioni). Il costituzionalista Massimo Luciani su Repubblica spiega i cambiamenti con la sentenza sul fine-vita: “Dev’essere innanzitutto chiaro che la Corte non parla affatto di un diritto al suicidio, ma si occupa solo del destino penale di chi aiuta coloro che hanno deciso di morire. E questo aiuto sarà legittimo soltanto in ipotesi molto circoscritte”, dice l’avv. Luciani. Come dev’essere chiaro che ora la speranza di un fine vita autodeterminato possono averla soltanto le “persone con una malattia irreversibile, che sono tenute in vita da trattamenti medici di sostegno, che patiscono intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche, ma che siano del tutto capaci di decidere liberamente e consapevolmente”.
Nadia Toffa, una grande voglia di vivere anche nella gravità della sua malattia
Ma siamo poi così sicuri che davvero siano così numerose le persone con condizioni di salute gravissime e irreversibili determinate a volere chiudere i collegamenti con il mondo terreno? Il caso di Nadia Toffa, la giovane conduttrice de Le Iene, venuta a mancare recentemente ci racconta una storia ben diversa di cui conosciamo l’epilogo. Sofferenze fisiche e morali causate da un tumore al cervello nel suo caso ce ne sono state, eccome. Ma “non ha mai perso la speranza”, racconta don Maurizio Patriciello che l’ha accompagnata nel suo ultimo viaggio. “Per Nadia, alla quale il Signore è stato certamente vicino, la malattia era un nemico da sconfiggere nella consapevolezza della sacralità della vita”. Alla fine ha vinto la sua malattia, il cancro. Ma “la sua prova di forza è stata un incoraggiamento per tante persone affette da questo male che, condizionate da una società spesso superficiale e spietata, ne hanno quasi vergogna, nel timore di essere emarginate”.
Don Patriciello riflette sul tema delicato e controverso del fine vita partendo anche dalla sua esperienza personale: “Mi rendo conto che le sofferenze possano spingere una persona ammalata, magari in un momento di sconforto, a desiderare la morte, ma non posso accettare una legge che sancisca questa decisione estrema. Penso che, anche nei casi disperati, una soluzione positiva sia sempre possibile e lo dico per esperienza personale. Dieci anni fa, infatti, ero certo che sarei morto di leucemia, quando la malattia inspiegabilmente regredì. Oggi sto bene (il sacerdote da sempre al fianco delle vittime della Terra dei Fuochi ha oggi 64 anni, ndr) e lo devo, oltre che ai medici, all’aiuto divino. Insomma, non bisogna mai perdere la speranza e la forza di lottare contro il male. E questo è il messaggio lasciato da Nadia”.
Anche se la norma della Corte costituzionale fa riferimento alla consapevolezza del paziente, dobbiamo sempre tenere presente quello che succede nei paesi che hanno aperto all’eutanasia (in Europa sono tre: Belgio Lusemburgo e Olanda): il rischio dietro l’angolo è che improvvisamente aumentino i casi meritevoli di una narrazione molto giocata sui casi pietosi, che stimolano tutta la nostra sensibilità. Questo potrebbe servire a inaugurare un’epoca, auguriamoci mai, in cui diviene possibile aggirare i criteri dettati dalla Consulta. Anche perché, quando si parla di malati inguaribili, si può fare riferimento a tante malattie diverse e a tante situazioni in cui il dolore viene percepito come insopportabile. A volte a ragione, altre invece perché acuito da diversi co-fattori, primo fra tutti la solitudine, quella fisica e quella affettiva. Insomma, potrebbe diventare molto facile l’accesso al suicidio. E, allora, imboccata quella strada, diventerebbe difficile tornare indietro.
Alessandra Binazzi
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