Figli, così non va: basta scuse, parole, eufemismi e inutili giustificazioni. Guardiamoli questi giovani, sono un bene prezioso, ricchi di risorse e di competenze, super tecnologici, super svegli, loro sono il nostro presente e per loro dobbiamo cominciare la battaglia più difficile, cambiare, senza paure, esitazioni, ripensamenti, veloci come il vento, in ballo c’è il futuro e la storia di un’intera Nazione.
Partiamo dal mondo degli adulti, coloro che inconsapevolmente sono i responsabili della condizione dei giovani: dalla culla alla scuola, dall’università all’interminabile precariato lavorativo; il mondo degli adulti progetta e produce le nuove generazioni per soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni. Prima bambini specchio di attese e simboli riconoscibili dalla famiglia, poi adolescenti consumatori di esperienze e prodotti suggeriti da un marketing onnipresente e ossessivo. Infine stagisti da reclutare e dismettere a seconda dei volubili trend del mercato.
E al primo malessere, una pletora di esperti. Perché l’eterno limbo in cui oggi sopravvivono molti giovani garantisce lo status degli adulti, la loro economia schiavistica, la loro psicologia egocentrica, in una parola il loro potere: la condizione giovanile è il risultato di una vera e propria congiura, dove padri e madri accolgono ogni richiesta del figlio senza battere ciglio, anzi innescando un immediato e irreversibile senso di colpa.
Sebbene, infatti, la giovane età sia per definizione una fase in cui l’identità del soggetto si ridefinisce sia in relazione agli altri che in termini intimistici, questa condizione viene amplificata considerando le attuali giovani generazioni, cresciute in un contesto socio-economico ed istituzionale anch’esso critico, suscettibile di molteplici cambiamenti e caratterizzato da incertezza anche valoriale ed identitaria.
Ma questa nuova condizione delle giovani generazioni come si interfaccia con le dinamiche istituzionali e quanto incidono nello specifico sulla crisi della partecipazione politica dei cittadini. L’impegno politico delle nuove generazioni si è, infatti, configurato nell’ultimo decennio come sempre più scarso, intermittente e superficiale. Questo trend è talmente visibile da aver determinato l’attribuzione alle nuove generazioni di etichette quali quella di “generazione invisibile” (Diamanti 1999) o “figlia del disincanto” (Bontempi, Pocaterra 2007), caratterizzata “dall’eclissi della politica” ed un progressivo “riflusso nel privato” (Ricolfi 2002). Si fa riferimento in particolare alla crisi istituzionale ed economica che sembra senza via d’uscita.
Ma perché questi ragazzi più o meno giovani, visto che arrivano a superare i trent’anni, sono lasciati fuori? Perché non si batte per loro quella generazione di padri, madri e nonni che ogni giorno li protegge, li tiene in casa, garantisce loro i soldi per l’aperitivo, le vacanze, la benzina e li difende in ogni momento a dispetto di tutto?
Battersi per loro significherebbe capire che i sacrifici degli adulti (necessari per non lasciargli in eredità un debito spaventoso) e qualche passo indietro sarebbero l’unico vero regalo che possiamo fare. Perché a forza di proteggerli e di tenerli al caldo non li abbiamo mai messi alla prova, non abbiamo lasciato che si scontrassero col mondo, non abbiamo lasciato che se la cavassero da soli? Abbiamo paura per loro e al momento di assumere un impegno verso la responsabilità, finiamo per pensare che siano acerbi e immaturi.
Invece faremmo bene a metterli alla prova. Lo dovremmo fare tutti, genitori, professori e datori di lavoro. Dovremmo tutti insieme dargli occasioni per sbagliare, ma anche imparare a correggersi.
Quella tra i 15 e i 29 anni sarà anche una “generazione perduta”, ma il punto è che a perdersela sono stati i genitori. Non sono gli unici responsabili, ma sono gravemente responsabili. Alessandro Rosina, un demografo della Cattolica di Milano, ha pubblicato un’indagine in cui spiega che l’Italia ha il più alto numero di giovani “Neet” di tutta Europa; quando per “Neet” s’intendono ragazzi fra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, spesso non hanno finito le scuole superiori o hanno mollato l’università: giovani che di fatto vivono sulle spalle dei genitori in una quantità che è un altro primato italiano.
Vediamo i numeri. Nel 2008 i Neet italiani (categoria che fino a 15 anni fa non esisteva) erano un milione e 850mila, oggi sono due milioni e 400mila: 550mila in più. Tutti insieme riempirebbero una città grande quasi quanto Roma, e rappresentano il 26 per cento del Paese contro una media europea del 17 per cento. In Germania e in Austria la media non supera il 10, percentuale che in Italia abbiamo solo in Trentino: che infatti di italiano ha poco. La cosa accade, peraltro, mentre in Italia si registra il tasso più basso di nascite di sempre, e accade, com’è noto, nel paese dei bamboccioni, in cui il 66 per cento (dati Eurostat) vive ancora a casa coi genitori: il 20 per cento in più della media europea.
Bastano, come dati? No, facciamoci del male: aggiungiamo che nel settembre scorso i disoccupati tra i 15 e i 24 anni erano il 40,5 per cento e che non vanno confusi con gli “inattivi”, cioè quelli che non hanno un lavoro e in realtà neppure lo cercano, anche se magari raccontano di sì: in Italia gli inattivi sono 3 milioni e 91mila, mentre in tutta Europa (28 Stati) sono 6,4 milioni: significa che quasi la metà sono da noi, e, non bastasse, risultano aumentati dello 0,5 per cento. Direi che i dati possono bastare.
Umberto Galimberti ha richiamato più volte le motivazioni che spingono i giovani alla derealizzazione di se stessi, partendo da lontano, addirittura da Nietzsche che, alla fine dell’8oo, aveva messo in guardia tutti sull’arrivo del nichilismo, un fenomeno dove l’universo perde il suo ordine, dove non esiste più né il basso né l’alto né il dentro né il fuori. Mai come oggi il nostro momento storico sente fino in fondo i morsi di questo fenomeno. Galimberti ha fissato un paradigma su cui riflettere: dal futuro/promessa siamo arrivati al futuro/minaccia. Il tema della mancanza di futuro, porta a depressioni e difficoltà nei giovani, non più come difficoltà del singolo, ma della società nel suo complesso, infatti senza promesse sostiene il sociologo, si arresta il presente e senza presente non si intravede il futuro.
Dovremmo allora cominciare dalla scuola, dove categorie come autostima ed auto accettazione dovrebbero essere fondanti nel percorso scolastico, dove molto spesso il concetto di educare viene sostituito dal concetto di istruire.
Dovremmo ripartire da sistemi educativi più rigidi e meno simbiotici, dove l’interesse del genitore per formare un adulto consapevole, dovrà essere di orientare, di rendere autonomo, di accompagnare le scelte dei ragazzi e non di sostituirsi ad essi accettando tout court le loro fragilità, le loro pigrizie, la loro superficialità.
Abbiamo il sacrosanto dovere di invertire la rotta, e anziché pensare che siamo una società allo sfascio, dovremmo pensare che la società si annida in ognuno di noi, e tutti noi, nel nostro piccolo, abbiamo l’obbligo di dare fiducia e speranza per il futuro dei nostri ragazzi.
Barbara Ruggiero
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