Rinchiudersi in cameretta per rifugiarsi dal mondo. Per qualche ora, è capitato a tutti; ma per migliaia di adolescenti e di adulti è drammatica realtà quotidiana. Gli psicologi lo chiamano ritiro sociale. Chi ne è colpito non esce dalla sua stanza nemmeno per mangiare, non frequenta più la scuola, rifiuta ogni rapporto sociale. Può durare mesi, anni, a volte perfino tutta la vita.
Il problema è stato osservato e studiato in Giappone fin dagli anni ’80, e infatti si chiama anche hikikomori: termine nipponico, appunto, che indica sia il fenomeno d’insieme sia i soggetti interessati. Ma dai primi anni del nuovo millennio è stato segnalato anche nei paesi occidentali.
La causa, secondo la maggior parte degli specialisti, è quel senso di vergogna e inadeguatezza che si può sviluppare dopo un insuccesso. In certe condizioni, questo può portare il soggetto a voler tagliare tutti i ponti con la società, per sfuggire il confronto ed evitare nuove delusioni. Aspettative molto alte – irragionevolmente alte – tendono ad aggravare il problema.
Secondo gli studi sul fenomeno, spesso il primo segnale di questa singolare condizione è il rifiuto di frequentare la scuola. Arriva all’improvviso, senza presentare segni premonitori. Poco alla volta, ma inesorabilmente, le persone interessate interrompono tutte le attività che li possono portare a uscire di casa, poi si autoesiliano nella loro stanza; come accennato, non escono nemmeno per mangiare, e a volte arrivano a ridurre perfino le visite al bagno. Ma in questo modo si autoescludono da tutte quelle grandi e piccole gratificazioni che potrebbero attenuare il loro senso di vergogna. Le reazioni delle famiglie sono disparate, e alcune di queste, purtroppo, finiscono per aggravare a loro volta il problema. Una di queste, piuttosto diffusa in Giappone, è far finta che il problema non esista, per smettere di alimentare il circolo vizioso della vergogna. Ma così la situazione diventa cronica: il figlio hikikomori resta confinato nella sua stanza anche per anni, e non interrompe il suo isolamento fino a quando non è costretto dalle circostanze, ad esempio alla morte dei genitori.
Quanti sono gli hikikomori nel mondo? Difficile censirli in Giappone, dove il fenomeno è noto e vissuto come un’emergenza sociale; a maggior ragione qui, dove lo si conosce meno e spesso si scambia per qualcos’altro. Nel paese del Sol levante le persone che vivono autoesiliate in una stanza dovrebbero essere fra 400 mila e due milioni. In Italia, invece, “le stime parlano di 20/30 mila casi”, come ha detto l’anno scorso lo psicoterapeuta Antonio Piotti.
A Milano, Piotti lavora con la cooperativa Il Minotauro, che da più di trent’anni studia il disagio psicologico e sociale di adolescenti e giovani adulti. È uno dei tre autori – gli altri due sono Roberta Spiniello e Davide Comazzi – de “Il corpo in una stanza”, la prima indagine tutta italiana sul fenomeno.
Spesso il ritiro sociale viene scambiato per depressione, avverte Piotti. È vero che alcuni sintomi sono comuni alle due situazioni, ma le ragioni sottostanti sono diverse: “Chi è depresso – spiega – tipicamente ha crisi di pianto, incapacità di relazione, continue lamentazioni su di sé e, nella sua sofferenza, c’è una forte componente di senso di colpa”. Il sentimento che prevale negli hikikomori, invece, è la vergogna: “Si vive come un fallimento la distanza tra il mondo che si è immaginato e previsto per sé e quella che invece è la realtà”, continua Piotti. “Tanto più grande è la distanza tra la realtà che si era idealizzata e quella vera, tanto più grande sarà la vergogna che si prova”.
Così forse si spiega meglio come questo fenomeno si sia diffuso tanto in Giappone, dove nell’educazione dei figli ci si concentra sulla competitività e gli insuccessi personali sono visti come fallimenti dell’individuo nel suo insieme. E si spiega anche la prevalenza assoluta dei maschi rispetto alle femmine, che sono solo il 10% degli hikikomori. La società giapponese ha valori familiari all’antica: dall’uomo di casa ci si aspetta soprattutto che porti a casa la pagnotta, la donna si occupa praticamente da sola dell’educazione dei figli. Le ragazze, quindi, subiscono di meno la pressione al successo scolastico e professionale, e sono anzi incoraggiate a passare più tempo possibile in casa.
Sbaglia, insomma, chi identifica gli hikikomori con i NEET, i giovani che non studiano né lavorano – l’acronimo inglese sta per not (engaged in) education, employment or training: “non attivi nell’istruzione, nel lavoro o nella formazione professionale” – ma non per questo necessariamente rifiutano le attività sociali. Ugualmente sbagliate sono le spiegazioni riduttive che puntano il dito contro insuccessi a scuola e con l’altro sesso: “Il problema a scuola non riguarda né le materie, né lo studio, né gli insegnanti, ma la socialità complessiva, l’incontro con membri dell’altro sesso e, quindi, il rischio del rifiuto, e la competizione, non sempre vincente e felice, con quelli del proprio”.
Sbaglia ancora, e rischia di aggravare la situazione, chi dà la colpa a internet. In effetti, dal loro esilio autoimposto, gli hikikomori passano tantissimo tempo a navigare sulla Rete, dove a volte riescono a costruirsi una rete di contatti e rapporti sociali. Contatti mediati dai computer, d’accordo, che difficilmente saranno mai profondi quanto quelli possibili nel “mondo di fuori”. Ma questo, dal punto di vista del recluso sociale, è semmai un vantaggio: su internet gli insuccessi di cui si vergogna non interessano a nessuno, ed è più facile dire solo quel che ha intenzione di dire, senza preoccuparsi di tenere sotto controllo i mille canali della comunicazione involontaria (dai codici di abbigliamento al linguaggio del corpo). Staccare la spina, poi, permette di sfuggire a ogni problema o imprevisto.
È proprio approfittando di queste aperture che i terapeuti riescono a fare breccia nell’isolamento degli hikikomori. Già, perché dalla reclusione sociale si può guarire. In trent’anni di esperienza, i giapponesi hanno affinato un approccio misto che accanto al lavoro di psicologi e psichiatri prevede l’intervento di progetti di risocializzazione. In parole povere si tratta di riabituare i ragazzi a uscire dal microcosmo della cameretta, coltivando interessi come il volontariato o lo sport.
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