La scoperta di Homo naledi, la nuova specie di ominide descritta dall’équipe dell’università Witwatersrand di Johannesburg diretta dal paleoantropologo Lee Berger, getta luce da una nuova angolazione sull’evoluzione della specie umana. Potrebbe provare infatti l’esistenza di più linee evolutive nella famiglia degli ominidi, e suggerisce che più di due milioni di anni fa i nostri antenati fossero tanto intelligenti da seppellire i morti.
A rendere sensazionale la scoperta di Berger e della sua squadra sono anche le dimensioni: un “mosaico fossile” di 1500 ossa, appartenenti a quindici individui di varie età, ritrovati tutti nella stessa caverna. Per capirsi, dell’ominide più famoso del mondo, l’australopiteco Lucy, non abbiamo nemmeno lo scheletro completo.
Sono stati ritrovati in una grotta battezzata Dinaledi (“Stella nascente”), a Maropeng (“Culla dell’umanità”), già patrimonio dell’UNESCO per i ritrovamenti di cui è stato teatro nei decenni scorsi, a circa 50 km da Johannesburg. Naledi, per l’appunto, vuol dire “stella” in sesotho, una delle undici lingue ufficiali del Sudafrica, che si parla intorno al luogo della scoperta.Recuperarne i resti è stata un’impresa complessa. Gli scheletri erano in una grotta profonda 40 metri che comunica con l’esterno attraverso una fenditura strettissima, attraverso la quale la maggior parte delle persone non sarebbe mai riuscita a passare. Grazie a un finanziamento del National Geographic, Berger ha reclutato sei speleologhe donne, selezionate in base all’esperienza e al fisico minuto, che hanno posato nella grotta tre chilometri e mezzo di cavi ottici con cui hanno potuto comunicare con gli scienziati rimasti in superficie.
“La prima volta che sono arrivata nella camera dove c’erano le ossa fossilizzate ho provato una sensazione simile a quella che deve aver provato Howard Carter quando aprì la tomba di Tutankhamon”, ha detto Marina Elliott, una delle speleologhe.
L’Homo naledi ha “caratteristiche abbastanza simili a quelle di alcune specie più primitive del genere Homo, come l’Homo habilis”, la specie più antica del genere Homo a noi nota – vissuta circa tre milioni di anni fa – e la prima a lavorare la pietra. Le due specie potrebbero essere più o meno contemporanee. Gli scopritori, però, sono estremamente prudenti nella datazione della nuova specie, come vuole la prassi quando si ritrovano fossili in una caverna preesistente.
L’Homo naledi non è più alto di un metro e mezzo, snello, ma il portamento e i tratti del viso sono ancora scimmieschi, il cranio piccolo e il cervello non più grande di un’arancia. Fa scalpore, invece, la struttura degli arti inferiori: gambe lunghe e piedi non più prensili, adatti all’andatura bipede e sorprendentemente simili ai nostri.
“All’interno della grotta c’erano praticamente soltanto resti di Homo naledi”, ha spiegato Berger: “Dopo aver analizzato tutti gli scenari possibili, siamo arrivati alla conclusione che sia stata questa specie a voler intenzionalmente seppellire i corpi dei propri defunti. Che quindi fossero dediti al rito della sepoltura”.
Per la paleoantropologia questa sarebbe una rivoluzione: finora si pensava che soltanto l’Homo sapiens fosse capace di comportamenti rituali così complessi, sostenuti da un pensiero simbolico.
Non è però l’unica spiegazione possibile: è possibile che i quindici individui ritrovati nella grotta siano semplicemente morti di stenti dopo essere rimasti intrappolati lì dentro. In ogni caso, sulle ossa non ci sono segni di morsi o traumi, quindi a portarli nella caverna non sono stati predatori.
Per riscrivere la storia dell’uomo è ancora presto, per quanto la squadra di Berger – che conta 50 scienziati di provenienza internazionale, tra cui un italiano, Damiano Marchi – sia al lavoro a Maropeng da due anni. Ma i ricercatori sembrano aver trovato le conferme che cercavano, a sostegno dell’ipotesi per cui l’origine del genere Homo va rintracciata sugli altopiani dell’Africa meridionale.
“Il ritrovamento – ha concluso Berger – è un segnale forte. Dimostra come in passato siano stati commessi errori, che non hanno permesso di far venire alla luce un passaggio fondamentale nella storia dell’evoluzione. E tuttavia non possiamo escludere che esistano altre zone del mondo dove, in futuro, si scoprano nuove specie. Ancora più antiche”.
Filippo M. Ragusa
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