In casa Grillo quest’anno non si festeggia. E non potrebbe essere altrimenti. L’ultima tegola dell’ex ministro dell’istruzione Fioramonti, dimissionario pronto a sostenere politicamente il premier Conte, è uno scricchiolio più forte e sinistro del solito.
Da ieri a complicare ulteriormente le cose è arrivata anche la cacciata di Pierluigi Paragone, scelta che non fa che aumentare la fibrillazione nel movimento ancora oggi partito di maggioranza relativa nel Paese ed in Parlamento.
Non c’è più pace nel cielo della politica italiana. Il 2019 appena lasciato alle spalle è stato un anno non certo facile per i Cinquestelle. Tutt’altro. Per il 2020 il barometro volge ancora di più a tempesta. L’anno che si è appena aperto si presenta con un carico di problemi e “strappi”che potrebbero comportare, nel giro di qualche settimana, anche la prospettiva di feroci lacerazioni interne dagli sviluppi imprevedibili per l’esecutivo.
E la prima cartina di tornasole si avrà al prossimo vertice di governo dove Conte dovrà verificare la tenuta di esecutivo e maggioranza con due mine micidiali, la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton e la necessità di modifiche all’istituto della prescrizione, appena entrato in vigore per volontà del ministro di giustizia Bonafede sostenuto in blocco dall’intero movimento grillino.
Si può brindare ad un bilancio politico interno e di governo così drammaticamente confuso e povero? Qualcuno comincia a pensare che quella del M5S sia diventata la storia triste di cinque stelle cadenti, nate da un legittimo malcontento popolare e cresciute su un consenso elettorale oggi in forte declino. Cinque stelle probabilmente prossime al tramonto, se è vero che molti militanti in seguito al fallimento di una lotta al sistema sempre strillata ma mai portata effettivamente a maturazione, vedono i segnali inequivocabili di una crisi di identità profonda e senza vie d’uscita.
Ma, in ultima analisi, la crisi del M5S è davvero tutta riconducibile alla scelta che ha portato al matrimonio con il Pd e alla nuova maggioranza di governo che hanno creato, in Italia, un punto di stallo politico sociale ed economico mai registratosi prima?
In verità a pesare sull’immobilismo di Di Maio c’è indubbiamente la dinamica del consenso interno e delle strategie di governo. Nel M5S la base non conta nulla, zero, perché le scelte politiche vengono prese ai vertici, cioè da Grillo e soprattutto dalla Casaleggio Associati. Ogni decisione viene passata al vaglio della piattaforma Rousseau, un sistema informatico enigmatico, di cui pochi, conoscono i meccanismi di funzionamento più reconditi e inconfessabili.
Cosa pensare poi del fatto che le decisioni dei vertici, vengono approvate da una piccola e risibile parte degli elettori accreditati sulla piattaforma?
E’ mai possibile che la costituzione del nuovo governo italiano, il Conte 2, sia stata possibile grazie al via libera di soli 63.146 elettori che hanno cliccato un si o un no, dietro ad un anonimo monitor, sulla piattaforma intitolata al grande filosofo francese Rousseau?
Dietro questa democrazia mediata da una oligarchia elettronica, le scelte di pochi si impongono sulle scelte di molti. Un’artefatta e nebulosa realtà, simile a una matrix che tra tentativi confusi e contrastanti fatti in buona fede, ha confuso quei pochi e inconsapevoli “aficionados” che ancora credono alla bella favola delle giornate del Vaffa day, del “ti mando a quel paese”.
Ma un Paese complesso e problematico come il nostro può essere governato così, sulla base di consensi postumi che legittimano decisioni prese dall’altro?
Il sistema, quello dei poteri forti, delle banche, delle confraternite del malaffare e dell’indifferenza, sopravvissute al voto del 4 marzo 2018 è riuscito a fare più di Di Maio, Grillo e compagni. Lentamente ma inesorabilmente, complici le stesse istituzioni europee, in poco più di venti mesi il vecchio sistema è riuscito a mettere guinzaglio e museruola al M5s, non solo non considerandoli più pericolosi, ma attribuendogli meschinamente anche il titolo di “forza politica di passaggio”.
Allearsi con i “morti che camminano”, per Zingaretti, il nemico giurato del M5S è stato più semplice che accettare la sfida di nuove elezioni, che peraltro avrebbero rispedito, con ogni probabilità, il Partito democratico all’opposizione.
Dentro il Movimento questi aspetti dissonanti non sono certo sfuggiti ai più ferventi credenti della prima stesura dei “comandamenti” 5 stelle provocando una vera e propria crisi d’identità che ha innescato malumori e “schiaffoni” sugli scanni del Senato e della Camera dei deputati.
I critici tuttavia faticano ad organizzarsi tutti insieme intorno a precise idee alternative, e quel che è peggio non trovano un vero leader. Così i malumori, i veleni e gli spifferi si rincorrono senza soluzione di continuità, e senza un filo conduttore, appestando l’aria del Movimento.
E Luigi Di Maio, il capo politico 5 stelle, che ne pensa?
L’ex ragazzo non prodigio, baciato dalla dea fortuna della politica, di fronte a questo sfascio sembra inebetito, incapace di muoversi per uscire dalla morsa dei fallimenti. E a consolarlo stavolta non ci sarà neppure “il Grillo parlante” tutto pacche e incoraggiamento, che continua a blindarlo. Per il momento il capo politico del movimento sembra guardare, trasognato e rinunciatario, solo la fine del sogno.
Qualcuno dei suoi gli chiede di avere più “polso”, una posizione più netta, più coerente, ma lui rimane lì, fermo, con quel timido sorriso sulle labbra che spesso ricorda i pugili suonati ormai incapaci di reagire ai colpi dell’avversario.
Gianluigi Paragone, senatore del movimento oggi fuori, da sempre contrario all’accordo con il Pd, da sempre bestia nera in odore di eresia in casa M5s, in una recente intervista ha puntualizzato: “La forza di Luigi sta nel fatto che la sua debolezza è comunque più forte della somma delle debolezze di tutti gli altri… Ed è per questo che non c’è alternativa oggi a Luigi anche se lui non controlla più i gruppi e di fatto non sa dove portare il Movimento perdendo progressivamente peso politico ed elettori”.
Analisi puntuali confermata dai numeri di quello che si profila ormai come un autentico disastro politico. Dall’inizio della XVIII legislatura il Movimento 5 Stelle ha lasciato per strada ben 12 parlamentari eletti: 7 deputati e 5 senatori. L’alleanza successiva con il Partito Democratico, il vero nemico che si voleva combattere solo pochi anni prima, ha creato un vero e proprio terremoto nei gruppi parlamentari. Tra minacce, voti contrari, dissuasioni e corteggiamento di altri partiti, il movimento lotta tutti i giorni contro se stesso e contro la fuga dei suoi eletti.
Per non parlare dei rimborsi, argomento di tensione in questi ultimi giorni dell’anno. Molti deputati non hanno restituito i soldi degli stipendi come previsto dal contratto M5S e si attendono provvedimenti ed espulsioni. Il Tribunale del Movimento è sempre aperto, festività natalizie comprese.
Qualora si dovesse votare nel prossimo anno, la grande messinscena del partito civetta M5S sarà definitivamente conclusa, tra promesse mancate e inutili proclami mai realizzati. L’antisistema che ritorna sistema è il guizzo del malaffare etico, tipico della politica italiana.
Con questi presupposti, il cielo della politica italiana si avvia a restare privo di stelle e, senza dubbio, un po’, anzi, molto più buio.
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