Nella storia del Principato ci furono molti Imperatori che contribuirono a creare il mito e la grandezza della Roma imperiale e vengono ricordati per la loro forza, la loro saggezza e probità. Ma allo stesso tempo ce ne furono altri che ne infangarono il nome e sono ricordati quasi esclusivamente per i loro vizi, le loro depravazioni, le crudeltà e le loro stravaganze. Tra questi, il posto d’onore spetta senza dubbio a Gaio Giulio Cesare Germanico, meglio noto come Caligola. Un uomo che può essere considerato tra i casi umani più singolari e assieme più enigmatici della storia.
Già dagli inizi del suo regno, Caligola aveva lucidamente preso coscienza di una malattia mentale che lo attanagliava e arrivò persino ad accarezzare l’idea di lasciare il potere per dedicarsi completamente alla cura del suo cervello. Oggi gli storici tendono a credere che la maggior parte delle allucinazioni, dei comportamenti insani ed efferati del principe, potessero essere dovuti a patologie, persino genetiche. Sappiamo che beveva vino edulcorato in botti di piombo, possibile causa di saturnismo, o ancora, si dice che impazzì dopo aver assunto un filtro amoroso offertogli dalla moglie Cesonia, oppure si parla di alcune malattie che aveva già dall’infanzia come l’epilessia e un possibile ipertiroidismo. Ma sono solo supposizioni. Nato ad Anzio il 31 agosto dell’anno 12 d.C., Caligola viene descritto come un giovane alto e imponente, dotato di fronte larga, ma con gambe e collo molto gracili, con la pelle di un colorito scuro, i capelli radi, soprattutto all’apice della testa, irsuto sul resto del corpo, e con un volto molto tetro. Tutte le fonti antiche (Tacito, Filone d’Alessandria, Seneca, Flavio Giuseppe ed Eutropio)sono concordi nel definirlo «un pazzo» dotato di una «follia sanguinaria”. Seneca diceva di lui “ Non si troverà di certo nessun altro che abbia infierito tanto atrocemente verso coloro che stavano per morire.” Sin da giovane Gaio Caligola amava assistere agli spettacoli violenti e provava un gusto sadico nell’assistere alle torture e alle esecuzioni capitali. Quando era Imperatore amava ripetere: ” l’esecuzione dona conforto e libertà.. si muore perché si è colpevoli, Si è colpevoli perché si è sudditi di Caligola.. Quindi tutti devono morire. E’ solo questione di tempo e di pazienza”. La tragica storia di Caligola fu quella di un giovane aristocratico erede di una famiglia lacerata e perseguitata, un nobile rimasto orfano di madre e padre, staccato dai fratelli anch’essi uccisi per invidie e livori, malato nel corpo e nello spirito. La sua fortunata ascesa al potere avvenne Il 16 marzo del 37 d.C., dopo la morte dell’Imperatore Tiberio ( secondo alcuni da lui soffocato con un cuscino), quando il Prefetto del Pretorio Macrone lo fece incoronare Imperatore. Alla notizia tutto il mondo romano fu festante, persino il re dei Parti Artabano, disprezzatore di Tiberio, rese omaggio alle insegne, alle immagini dei divi e offrì la sua amicizia al principe tramite il legato consolare. Appena eletto, Gaio suscitò nel popolo grandi speranze e infinita gioia, durante il viaggio di rientro a Roma il nuovo principe veniva acclamato dalle folle assiepate con affetto e adorazione, veniva chiamato “pupo”, “stella” e ancora “pulcino” o “bambino”. Il suo inizio fu incoraggiante. Nei primi tempi compì atti di grande liberalità, promosse amnistie, diminuì le tasse, organizzò giochi e feste, rese di nuovo legali i comizi. Per ben due volte donò alla plebe trecento sesterzi a testa e sempre per due volte offrì un sontuoso banchetto per senatori e cavalieri. In occasione del secondo banchetto, fece persino distribuire abiti da passeggio agli uomini e delle frange purpuree per le donne e i bambini. In poco meno di un anno di regno, consumò l’intero patrimonio messo da parte da Tiberio, pari a due miliardi e settecento milioni di sesterzi. Grande amante del teatro e dei giochi circensi gladiatorii, ne fece allestire di ogni sorta e con ogni tipo di attrazione, dai pugili campani fino alle belve africane più esotiche. In tre mesi furono sacrificate agli Dei centosessantamila vittime. Nutrì grande passione per le corse, arrivando a parteggiare platealmente per la fazione verde. Arricchì e coprì di onore il famosissimo cavallo Incitato, al quale aveva donato una mangiatoia d’avorio, una stalla di marmo, una villa ed uno stuolo di schiavi a sua disposizione. Disprezzava molti dei letterati latini e pur non essendo un grande amante dello studio, tuttavia fu un grande oratore e maestro di eloquenza, con una meravigliosa prontezza di parola, e un sempre fulgido livore verso i soggetti dei suoi discorsi. Per emulare Serse, o molto più probabilmente per mandare un chiaro messaggio alle tribù germaniche e britanniche oltre il Reno e la Manica, congiunse il molo di Pozzuoli a Baia con un lunghissimo ponte di barche da carico, per poi attraversarlo per intero a cavallo seguito da generali, senatori e cavalieri. Svetonio ci narra di come Caligola avesse persino preso la corazza di Alessandro Magno dalla sua tomba e usasse talvolta mostrarsi in pubblico con quella indosso.
Questo era il Caligola umano , che con un fare generoso e liberale donò gioia. Ma durò poco. Ora dobbiamo parlare del mostro. Che durò per oltre tre anni che donò terrore allo stato puro. Osserva lo storico Filone « …non passò molto tempo e l’uomo che era stato considerato benefattore e salvatore…si trasformò in essere selvaggio o piuttosto mise a nudo il carattere bestiale che aveva nascosto sotto una finta maschera » . Nell’ottobre del 37, dopo soli sette mesi dall’inizio del principato, Caligola venne colto da una improvvisa e strana malattia, da molti attribuita agli eccessi praticati agli inizi del suo regno. La notizia turbò profondamente il popolo romano che fece voti per la salvezza del proprio princeps. Faticò molto a guarirne, e ne uscì sconvolto nel fisico ma soprattutto nella mente. Come fu di nuovo in piedi, Gaio cambiò completamente atteggiamento, instaurò un governo assoluto, mettendosi in urto col senato e le classi dirigenti, inimicandosi anche il favore popolare. Istituì tasse odiosissime su ogni ceto: dai giudici, fino ai facchini e alle prostitute, ogni attività era sottoposta ad una tassazione, mirante al rimpolpare le sfinite casse pubbliche. Si dice che arrivò persino a vendere i liberti e gli arredamenti del Palatino ad alcuni provinciali in Gallia . Inglobò così enormi quantità di monete in oro e argento che fece depositare in una stanza. Nei momenti di solitudine poi, amava chiudersi in questo luogo chiuso, per strofinarsi e rotolarsi sopra le ingenti quantità di aurei e denari. Ebbe quindi una trasformazione malefica, divenne soggetto a terrificanti sbalzi d’umore, spesso in preda ad allucinazioni, ad insonnia e perennemente afflitto da tremende paranoie. Giovenale e Svetonio individuano la causa della nuova pazzia in un potente afrodisiaco (poculum amatorium) somministratogli dall’ultima sua moglie Milonia Cesonia. Cosi divenne rapidamente cinico, megalomane, sanguinario e assolutamente folle. Secondo alcune fonti, si divertiva a mettere a punto nuove espressioni paurose ed orripilanti atte a spaventare i suoi interlocutori. Condannava a morte per i motivi più futili, e spesso condannava due volte la stessa persona, non ricordando di averla già fatta uccidere. Non permetteva che si procedesse a giustiziare nessuno diversamente che con piccole e numerose ferite secondo il suo insegnamento, che prevedeva di colpire la vittima sempre in modo che sentisse di morire. Mostrava con ostentazione la sua crudeltà, come quella volta che per futili motivi un cavaliere romano venne gettato alle belve feroci dell’anfiteatro, e mentre il poveraccio si proclamava innocente, lo fece ritirare facendogli sperare clemenza, ma invece era per non sentirlo strillare che gli fece recidere la lingua per poi rigettarlo alle bestie. Poiché il bestiame da dare in pasto alle fiere costava troppo decise di ricorrere ai prigionieri comuni, ci tramanda Svetonio che dal centro di un peristilio, osservava i carcerati e così li indicava per mandarli a morte: “ Da quel calvo a quell’altro calvo li in fondo .” Spesso si vestiva con abiti femminili, e portava braccialetti e gioielli vistosi. La sua crudeltà era senza limiti, marchiò a fuoco e fece uccidere molte famiglie di alto rango, costringendo talvolta i genitori delle vittime ad osservare i supplizi che venivano inflitti ai loro cari. Davanti a lui tutti dovevano genuflettersi, e aveva stabilito che il 18 marzo di ogni anno doveva diventare festa in suo onore. Fino ad allora gli Imperatori romani in vita erano adorati come divinità solo in Oriente, mentre a Roma si adoravano dopo la morte, Caligola cominciò a farsi adorare dai cittadini di Roma, compresi i senatori, come un dio vivente. Si faceva chiamare come gli dei: a volte Giove, altre Nettuno, Mercurio, e Venere. Con Giove Capitolino l’imperatore manteneva un rapporto confidenziale, quasi di fratellanza e complicità. Riferisce Svetonio: « Di giorno… parlava in segreto con Giove Capitolino, ora sussurrando e porgendo a sua volta l’orecchio. Ora a alta voce e senza risparmiargli rimproveri.” Aveva anche escogitato un’invenzione con cui rispondeva con tuoni ai tuoni e mandava lampi in risposta ai lampi: e quando cadeva un fulmine lanciava a sua volta un sasso come se fosse un dardo ripetendo ogni volta il verso d’Omero, o tu elimini me o io te ». Finché non si lasciò persuadere – a sentir lui – dall’invito del dio a condividere le proprie sedi, e collegò con un ponte il palazzo imperiale del Palatino al tempio di Giove Capitolino situato sul Campidoglio». Alla fine Il suo principato fu caratterizzato da ripetuti massacri degli oppositori, e da atti di governo che miravano ad umiliare la classe senatoria e l’intera nobiltà romana.]Celeberrimo è l’episodio del cavallo chiamato Incitatus che, secondo quanto tramandano Svetonio e Cassio Dione, sarebbe stato dallo stesso nominato senatore, come atto estremo di denigrazione nei confronti dell’assemblea senatoria. Anche in fatto di matrimoni diede luogo a squilibri. Considerava tutte le donne proprietà privata e si riteneva in diritto di stuprare in qualsiasi contesto si trovasse. Così dice in proposito Svetonio: « Quanto ai matrimoni non è facile stabilire se sia stato più turpe nel contrarli oppure nello scioglierli o nel farli durare. » Dopo la morte della prima moglie Giunia Claudia, Caligola iniziò una relazione intima con Ennia Trasilla, consorte del fedele prefetto del Pretorio Macrone ( a cui doveva l’incoronazione). Ancora vedovo, verso la fine del 37, durante la festa di matrimonio dei nobili Gaio Calpurnio Pisone e Livia Orestilla, ordinò al marito di ripudiare la sposa per poterla lui risposare il giorno stesso. Accadde però che dopo pochi giorni anche lui la ripudiò, mandandola in esilio due mesi più tardi per non permetterle di risposarsi con Pisone. L’anno seguente si maritò con Lollia Paolina, moglie del consolare e governatore provinciale Publio Memmio Regolo. Caligola, che aveva sentito dire che sua nonna Aurelia era stata in gioventù una donna bellissima, fece chiamare Paolina dalla provincia, la fece divorziare dal marito e la risposò. Divorziò presto anche da lei dichiarando che fosse sterile e la rimandò indietro, ordinandole però di non avere rapporti carnali con nessun altro. Sempre nel 38, quando il fido Macrone fu nominato Prefetto d’Egitto, anche Ennia Trasilla fu costretta a partire insieme al marito e ai figli. Poco prima di salpare per la nuova destinazione, Caligola, evidentemente addolorato per essersi sentito abbandonato dall’amante, ordinò a lei, al marito e ai loro figli di suicidarsi. Nel 39, infine, iniziò una relazione con Milonia Cesonia, che divenne sua concubina, poi la sposò poiché era incinta. Milonia Cesonia non era né giovane né bella, ma Caligola provò per lei una vera passione. Dopo un mese di matrimonio nacque una bambina, alla quale venne dato il nome di Giulia Drusilla ( sua amante incestuosa, come tutte le altre sorelle) in ricordo della sorella scomparsa e divinizzata alla sua morte. Il suo comportamento dispotico determinò numerose congiure, tutte sventate tranne l’ultima. Il 24 gennaio del 41 per mostrare al Princeps uno spettacolo durante i Ludi Palatini, venne allestito un teatro mobile davanti al palazzo imperiale. Verso il mezzodì Caligola stava lasciando l’arena per fare un bagno, un pasto ed incontrare gli attori, mentre attraversava un corridoio con giardino fra il Circo Massimo e il Palatino, trovò la morte. Fu ucciso da un gruppo di pretoriani, guidati dai due tribuni Cassio Cherea e Cornelio Sabino assieme all’appoggio di molte frange senatoriali ed equestri. Caligola fu pugnalato a morte durante un scontro tra i congiurati e la sua guardia personale germanica, persero la vita anche sua moglie Milonia Cesonia, pugnalata da un centurione, e la figlia piccola, Giulia Drusilla, che fu scaraventata contro un muro. Dopo un forte ed improvviso colpo di spada alla mascella o secondo altri alla nuca, Caligola, conscio di non essere ancora morto, nell’estremo atto provocatorio, chiamò a lui tutti gli altri congiurati, i quali lo trafissero per circa trenta volte con delle lance, anche nelle parti intime. Visse ventinove anni e fu imperatore dal 37 al 41 d.C. per tre anni, dieci mesi e otto giorni. Il cadavere di Caligola fu portato negli Horti Lamiani, semi-bruciato e frettolosamente ricoperto di terra. Il giardino porticato ove fu ucciso Caligola rimase, secondo la leggenda, invaso da spettri fino alla sua completa distruzione durante un incendio. Quando le sorelle tornarono dall’esilio, disseppellirono il corpo del fratello e posero le sue ceneri nel Mausoleo di Augusto.
Fabio Longhi de Paolis
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