Ventotto prigionieri giustiziati con l’accusa di far parte di una “chiesa nemica”. È quanto si vede nell’ultimo video del braccio libico dell’ISIS, pubblicato domenica scorsa da al-Furqan, il canale di propaganda internazionale dei jihadisti.
Come è già accaduto nel febbraio scorso con il video che mostrava la decapitazione di ventuno egiziani cristiani, il califfato, quando è a corto di successi militari da vantare per alimentare il fuoco della propaganda, ricorre all’arma più antica del mondo: il terrore.
Il filmato dura poco meno di mezz’ora e mostra un montaggio di immagini di simboli cristiani distrutti e chiese demolite, mentre un miliziano legge in inglese le solite minacce di morte e devastazione ad uso degli “stati crociati”.
Quel che segue sono le scene di due esecuzioni di gruppo. In una i prigionieri, inginocchiati, sono freddati con un colpo di fucile alla nuca; nell’altra sono decapitati in riva al mare, forse nello stesso luogo dove era stato girato il video pubblicato lo scorso febbraio.
Il filmato non dà alcuna informazione sull’identità dei prigionieri, ma una scritta in sovraimpressione rivela che si tratta di seguaci della Chiesa copta d’Etiopia.
Non è chiaro come né quando ventotto etiopi cristiani siano caduti nelle mani dei miliziani. È possibile che fossero migranti, rapiti o comprati dai trafficanti di esseri umani che operano indisturbati nell’anarchia in cui versa la Libia.
Il governo di Addis Abeba, pur condannando quello che il portavoce Redwan Hussein ha definito “un gesto atroce”, ha ammesso di non aver modo di verificare la nazionalità delle vittime.
A febbraio, alla pubblicazione dell’altro macabro filmato seguirono, in linea con la strategia del terrore, alcuni attentati suicidi alle ambasciate e un’offensiva militare respinta da altre milizie libiche, tra cui la coalizione Fajr Libya, che sostiene il governo islamista al potere a Tripoli.
Filippo M. Ragusa
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