Netanyahu ci ha ripensato. Dopo l’entrata in vigore del decreto che vietava ai palestinesi di salire sugli autobus diretti verso la Cisgiordania, sono bastate poche ore perché il polverone alzato dalle proteste nazionali e internazionali convincesse il premier israeliano a fare marcia indietro.
Il progetto pilota firmato dal ministro della Difesa Moshe Yaalon, come Netanyahu un conservatore del Likud, permetteva ai palestinesi che lavorano in Israele di usare i mezzi pubblici per il viaggio d’andata, ma impediva loro di fare ritorno in Cisgiordania a bordo degli stessi autobus usati dai residenti delle colonie ebraiche costruite da Israele nel territorio occupato dopo il 1967.
Per i palestinesi erano stati approntati dei bus ad hoc, che li avrebbero portati solo fino ai checkpoint di confine, dopodiché avrebbero dovuto proseguire a piedi o con mezzi propri.
Il provvedimento era stato approvato dopo anni di campagne sostenute dai coloni e dagli esponenti del partito che ha più successo negli insediamenti, quegli ultranazionalisti di Yisrael Beitenu (YB) che al premier, fresco di riconferma dopo le elezioni dello scorso marzo, forniscono seggi indispensabili per tenere in carica il governo.
“Tornando dal lavoro, i palestinesi riempivano gli autobus talmente tanto che non c’era più posto per gli israeliani”, ha spiegato il deputato di YB Mordechai Yogev, lui stesso residente nelle colonie.
Ma per quanto abituati siano i coloni a fare la voce grossa, il grido di sdegno del resto del mondo li ha sovrastati: quei bus per soli palestinesi sanno di apartheid.
Il leader dell’opposizione alla Knesset, il laburista Isaac Herzog, è sul piede di guerra: “Separare palestinesi ed ebrei sul trasporto pubblico è un’umiliazione gratuita e una macchia sull’immagine dello stato e dei suoi cittadini”. Oltretutto, questa misura “aggiunge benzina sul fuoco dell’odio contro Israele nel mondo”.
“Il fatto che numerosi leader politici, consiglieri legali di alto livello e amministratori abbiano anche solo preso in considerazione una pratica tanto spregevole di separazione etnica sui trasporti pubblici è preoccupante e dovrebbe far provare vergogna a ogni israeliano”. A sostenerlo è Michael Sfard, un avvocato che si occupa di diritti umani tramite Yesh Din, associazione israeliana che fornisce assistenza legale ai cittadini palestinesi.
Un’altra opposizione netta, che probabilmente i coloni non avevano previsto, è arrivata dai militari.
I generali, secondo quanto ha annunciato la radio ufficiale dell’esercito, sostengono che un autobus a bordo del quale ci sono solo coloni israeliani sia un bersaglio troppo invitante per qualsiasi aspirante terrorista. La possibilità di ferire o uccidere altri palestinesi a bordo servirebbe insomma da deterrente per scoraggiare attentati contro i mezzi.
Secondo il COGAT, l’ufficio del ministero della Difesa israeliano che si occupa dei civili residenti in Cisgiordania, i palestinesi titolari di permessi di lavoro in Israele sono cinquantaduemila. Altri quarantamila, sostiene la Banca mondiale, lavorano nello stato ebraico clandestinamente.
F.M.R.
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