All’inizio del conto alla rovescia per il confronto sul testo dell’Italicum erano cento. Arrivata, su richiesta del governo, la decisione di votare la fiducia sul primo degli articoli del nuovo testo di legge, si erano ridotti a 38. Con la seconda votazione la pattuglia degli irriducibili Pd perdeva ancora un consenso per scendere a trentasette. Alla fine, la riforma elettorale di Renzi, già approvata al Senato grazie all’intesa del Nazareno e ai voti di Forza Italia, che lunedi in serata dovrà superare l’ultimo voto di fiducia, sarà sicuramente legge dello Stato. Con buona pace delle opposizioni parlamentari e soprattutto con buona pace per i Bersani, le Bindi, i Cuperlo i Civati e gli Speranza che fino all’ultimo avevano creduto nel miracolo di un ripensamento del presidente del consiglio.
Cosa dire di questo primo e fondamentale appuntamento con le riforme politico istituzionali? Il tempo e l’altalenante ma improduttivo braccio di ferro con l’opposizione interna alla fine ha premiato l’abilità e la determinazione del premier Renzi che ha portato un Pd compatto a fare quadrato intorno al suo leader. La legge può piacere o meno ma adesso perlomeno sappiamo di cosa stiamo parlando. E’ stata archiviata la stagione delle trattative sterili e infruttuose. E chi oggi reclama poca trasparenza e mancanza di dibattito democratico farebbe bene a rileggere con attenzione la propria storia personale e di partito. Non piace il premio di maggioranza alla lista? Con la nuova legge, chi vincerà a partire dal 2017, qualora si dovesse andare a votare, avrà margini per operare senza ricatti o condizionamenti. Non piace il metodo di “selezione” dellle candidature e dei capilista? Facciamo finta di non ricordare quanto avviene in Forza Italia da venti anni a questa con Berlusconi e nel Pci-Pds-Ds-Pd, da sempre. Dalla fondazione del partito ( Livorno 1921 ) ad oggi.
Le considerazioni da fare in effetti sono altre. Da quando in Italia vige un bipolarismo lacunoso ed imperfetto e cioè dal 1994, dopo “la discesa in campo”del Cavaliere, la destra non ha fatto altro che arroccarsi sui poteri forti (soprattutto economici e mediatici) del presidente, del capo carismatico che una volta entrato in crisi per le tante ragioni che sappiamo, ha iniziato a sbandare vistosamente perdendo pezzi per strada.
Nel Pd le cose sono andate diversamente. Sopravvissuto al crollo della Prima repubblica, ma ancora saldamente in mano ad una nomenclatura chiusa e restia a sostanziali cambiamenti nel partito, il Pd, dopo importanti esperienze di maggioranza e di governo, aveva a deciso di aprirsi di più nei confronti della società civile rinunciando nella sostanza e non solo nella forma a quel centralismo democratico che di fatto aveva sempre impedito un autentico rinnovamento nel vecchio Pci e nei partiti partoriti dalla svolta della Bolognina. La scelta anunciata tante volte per un autentico ed onesto confronto non controllato e condizionato dall’appararto burocratico erede di Botteghe Oscure, sembrava sincera.
Quando arrivò, con la nascita della Leopolda, il momento di cambiare metodi e leadership del partito, i vecchi patriarchi guidati da D’Alema, Bersani, Bindi Finocchiaro e compagnia di giro, tentarono, in tutti i modi, di condizionare le richieste e le scelte della base, fissando paletti e incompatibilità, ponendo veti e restrizioni senza rinunciare ai trucchi che nei gazebo, all’epoca, hanno fatto vedere di tutto: dalla compravendita di voti, alle intimidazioni passando per le incursioni pilotate dall’esterno che hanno fatto vivere momenti di gloria anche a migliaia e migliaia di extracomunitari e immigrati che avrebbero dovuto contribuire a quella rinascita che qualcuno nel Pd non voleva. Poi alla fine, ed è il caso di dirlo, ha vinto Renzi e la sua politica di rottamazione dei vecchi vertici.
A guastare i piani della dissidenza, ormai minoranza manifesta del partito, lo scorso anno arrivava per Renzi un sostanziale via libera anche dalle urne per le europee, che con un 41 per cento dei voti autorizzava il premier ed il Pd ad andare avanti sulla strada delle riforme e delle scelte indispensabili per la ripresa. Da quel momento, tra i dem si sono registrate solo convulsioni motorie che hanno lasciato abbastanza indifferenti gli italiani. Ora in questa partita tutta interna al partito di maggioranza relativa, alla minoranza non resta che prendere atto che sono fuori da tutto, almeno per quanto riguarda le gestione del Pd e del Paese.
Cosa potranno fare ora i dissidenti? Finite le metafore e le battute Bersani dovrà scegliere tra un Pd guidato da un re che potrà essere sfiduciato solo dai numeri del Parlamento, standosene buono in un cantuccio e senza reale potere di interdizione, o cambiare “ditta” e creare insieme agli altri dissidenti un nuovo partitino a sinistra di Renzi. Ma al momento sembra di capire che nè la prima e tantomeno la seconda ipotesi possano impressionare nessuno. Alla vecchia (compresa quella non anagrafica) nomenklatura del Pd non resta che prendere atto di una cosa: Renzi potrà essedre sconfitto solo quando non arriveranno risposte serie e concrete su occupazione, sicurezza, welfare, equità fiscale e sociale. Per il momento sulle riforme istituzionali e costituzionali, con il premier, il Paese sembra intenzionato a chiudere non uno ma tutti e due gli occhi. Quello che preoccupa infatti è la crisi e l’instabilità non la tenuta democratica, peraltro mai stata veramente a rischio.
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