Jerry Lewis compie novant’anni e New York, la sua città, lo festeggia con tutti gli onori che merita un gigante dello spettacolo: una retrospettiva al MoMa e un incontro con Martin Scorsese, uno dei grandi artisti che ha incrociato in una carriera lunghissima.
La sua fama è mondiale e ogni parte del mondo ha il suo Jerry Lewis. In Italia è più famoso per le macchiette comiche, in Francia hanno osannato le sue prove da regista, in America conoscono il personaggio televisivo e amano indignarsi per le sue provocazioni. Scorretto, dissacrante, rivoluzionario, vertiginoso, Lewis è un uomo di spettacolo totale.
È nato a Newark, periferia della metropoli sulla sponda del New Jersey, il 16 marzo 1926. La propensione allo spettacolo è genetica: madre pianista, padre attore di vaudeville, entrambi di origini russe e di religione ebraica (il cognome originale è Levitch). Da ragazzino accompagna i genitori in tournée. Sale sul primo palco tutto suo nel 1944, durante la guerra, dopo aver evitato la chiamata alle armi grazie ai postumi di un’otite perforante: solo il primo di una lunga teoria di acciacchi che lo perseguitano da una vita.
All’inizio ha uno stile radicato nello slapstick di prima della guerra, una comicità fisica, immediata, cresciuta a torte in faccia e bucce di banana, allenata negli intermezzi degli spettacoli del padre e in mille altre occasioni. Ad esempio quando lavorava in un cinema, come maschera, e approfittava degli intervalli per impossessarsi del palco.
Dopo due anni un suo amico lo convince a fare coppia con lui. È un suo concittadino, lui pure figlio di immigrati, stavolta italiani. È un cantante di belle speranze, si chiama Dino Crocetti, ma si fa chiamare Dean Martin. Il sodalizio dura dieci anni e ha un successo enorme: Lewis e Martin diventano addirittura personaggi di un fumetto, pubblicato da DC, in cui incontrano Superman e Batman. Le interazioni fra le loro due maschere, l’affascinante Martin e il pasticcione sgraziato Lewis, diventano il termine di paragone del comico dell’epoca.
Nel 1956 i dirigenti di Paramount Pictures gli suggeriscono che può lavorare benissimo anche da solo, e lui li prende fin troppo in parola, diventando total film-maker, attore, autore, regista, produttore. Per esigenze di stile – sul set improvvisa tantissimo, e vuole controllare gli effetti delle sue intuizioni estemporanee – inventa il video assist, il monitor con cui il regista tiene d’occhio il girato in tempo reale. Inventa il personaggio detto The Kid, sul mercato italiano “Picchiatello”: un eterno adolescente in bilico fra geniale e demenziale, che si nutre dell’imbarazzo del pubblico.
La sua comicità si fa sempre più personale, scorretta, irriverente. L’America puritana gli volta man mano le spalle, ma la riscossa parte dall’Europa, dai cervellotici critici francesi abituati a Jacques Tati. Non a caso non vince mai un Oscar. Non viene mai nemmeno nominato. In Francia, invece, Robert Benayoun lo apostrofa “il maggior artista comico del nostro tempo”. E Jean-Luc Godard lo definisce “l’unico regista americano al giorno d’oggi che cerca di sperimentare qualcosa di nuovo e originale”, “molto meglio di Chaplin e Keaton”. Nel 1970 esce la pietra di paragone della sua filmografia: Scusi, dov’è il fronte?, la sua nona regia, successo oceanico in Francia, flop contestato in America per aver osato sfottere con identica ferocia sia gli interventisti sia i pacifisti in piena epoca Vietnam.
A riportarlo in vista in America ci pensa Martin Scorsese, un altro interprete fenomenale dello spirito di New York del novecento. Lo chiama a interpretare se stesso in Re per una notte, nel 1983, con Robert De Niro. E lo ritrae non come il comico noto al pubblico – erano altri tempi – ma come l’uomo amareggiato, scostante, famoso suo malgrado e in balia degli abusi dei fan.
È il primo atto di un nuovo Jerry Lewis, che il pubblico americano impara ad amare e odiare. Si attira critiche senza fine per esternazioni politicamente scorrette contro gli omosessuali, i disabili, le comiche donne. Ma ogni volta ci si torna a chiedere se quelle siano le sue vere convinzioni, o deformazioni professionali da fool la cui missione è sbeffeggiare i costumi della società, o piuttosto non abbia cercato lo scandalo di proposito. Anche perché alla carriera artistica affianca un impegno sociale raro per volume e continuità. Nel 1966 è tra i fondatori dell’edizione USA di Telethon, la maratona televisiva che raccoglie fondi per la ricerca sulla distrofia muscolare, e si prodiga in campagne per la terapia del dolore e contro l’abuso di farmaci. Ha sperimentato entrambi sulla sua pelle. Soffre di dolore cronico per la frattura di una vertebra, subita sul set, in uno dei suoi sketch fisici. I farmaci facili, i barbiturici, gli hanno tolto un figlio nel 2009. Lui stesso negli anni ’70 aveva abusato di steroidi, arrivando a pesare 120 chili. Il fisico non gli dà pace: soffre di diabete, fibrosi polmonare, ha quattro bypass coronarici e ha superato un tumore alla prostata. Non si allontana quasi più da Las Vegas, specie da quando la sicurezza dell’aeroporto McCarran gli ha trovato nei bagagli una pistola non dichiarata, nel 2008. Circostanza che negli USA ha suscitato una frazione dello scandalo che si solleva ogni volta che esprime le sue opinioni. Ma di ritirarsi a vita privata non ha la minima intenzione. Il prossimo mese uscirà in distribuzione digitale – a maggio nei cinema – il suo prossimo lavoro, The Trust, con Nicolas Cage ed Elijah Wood.
F.M.R.
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