Veronica Campbell-Brown qualche giorno fa, adesso Tyson Gay più Asafa Powell, Nesta Carter, Sherone Simpson e almeno altri due atleti di primo piano dell’atletica giamaicana. E, quel che è peggio, si avverte la netta sensazione che quanto accaduto sia solo un modesto antipasto di quello che ci attende. Lungi da noi, in questo momento (mancano ancora le controanalisi e non bisogna mai dimenticare che anche il più rigoroso degli ordinamenti giuridici quale è quello sportivo ha una vocazione giustamente garantista), l’intenzione di sbattere mostri in prima pagina. Ma questo, sia pur provvisorio, elenco di nomi eccellenti una sua funzione ce l’ha: non solo far riflettere ( sono anni che si parla e si imbastiscono pompose tavole di discussione tra le varie componenti del mondo dello sport), ma anche spronare ad agire. E in fretta. Perché ormai di certezze ne possiamo avere una sola: che nulla, nel senso più letterale del termine, è certo. Nulla è come sembra. E tutto ciò che osserviamo, sia comodamente seduti in poltrona, sia meno comodamente in uno stadio, fa sorgere, puntuale, l’interrogativo: “Ma sarà vero? Posso applaudire sicuro di non esser stato truffato?”. Sì, perché, sgomberando il campo dagli equivoci, di truffa si parla quando compare la parolina magica “doping”. E non solo perché in Italia, come purtroppo solo in pochi altri paesi, il doping costituisce una pratica penalmente rilevante. Ma perché il danno che produce è plurimo: mina la salute degli atleti, inficia la correttezza delle competizioni e, da ultimo, prende in giro tutti gli appassionati. Quanto sta accadendo al Tour de France è emblematico, in tal senso. Si è ormai superata anche la fase dell’esultanza dubbiosa, nella speranza di non dover apprendere dai media che l’esito di una vicenda agonistica è stato stravolto da squalifiche a pioggia. Ormai, se Froome vince compiendo un’autentica impresa atletica sul Mont Ventoux, nessuno perde neanche più di un minuto a celebrarne la prodezza. Si pensa immediatamente a chi e a cosa possa esservi dietro. Come nella cronosquadre vinta a ritmo di MotoGp dalla Orica. E subito giù illazioni maliziose con Froome costretto a ribadire che lui è ben altra cosa da Lance Armstrong. Ne siamo sicuri? Probabilmente, nel nostro profondo no. Ma questo non vuol essere un j’accuse privo di qualunque suffragio probatorio nei confronti di questo piuttosto che di quell’altro atleta. E’ semplicemente che non ci fidiamo più di nessuno. A prescindere. Atteggiamento, se vogliamo, anche antipatico e pericoloso in un paese già profondamente malato di dietrologia come il nostro. Ma se sta facendosi largo un habitus mentale incline al sospetto preventivo varrebbe forse la pena di chiedersi il perché e da dove nasca prima a ancora che chiedersi se sia corretto o meno. E’ il mondo dello sport tutto che, implicitamente, lo sta chiedendo. Perché il sistema su cui poggia è al minimo storico della credibilità. Un sistema improntato alla ben nota e deprecata doppia morale per cui, davanti alle telecamere, tutti i protagonisti si ergono a paladini della lotta al doping e si professano candidi, poi, dietro le quinte, tutti ) o molti) sanno, ma si voltano dall’altra parte. E tacciono. Federazioni sportive comprese. Perché un campione in più, anche se costruito in laboratorio, fa sempre bene al movimento. I tempi in cui Usa e colossi d’oltre cortina (Urss e Germania Est) si sfidavano a colpi di medaglie con ogni mezzo, soprattutto illecito per alimentare la propaganda nazionale sono lontani solo perché è mutato il movente. Oggi ci si dopa non perché sia la tua nazione a chiedertelo (e importelo) ma perché magari è il tuo direttore sportivo a farlo o la tua Federazione o il tuo allenatore o il tuo medico sociale. O magari anche solo a scopo “difensivo” perché, “se lo fanno gli altri, io che sono scemo?”. La sostanza (non le sostanze, quelle si evolvono continuamente) rimane però la medesima. Quindi, che fare? Sfruttare al massimo il momento. La gente è stufa di passare più tempo a chiedersi se ciò cui ha assistito sia stato autentico o un’ignobile farsa. E’ l’humus ideale per agire. Perché se l’appassionato non si appassiona più, lo sport è morto. E con il sistema vanno a ramengo anche contratti, sponsor, finanziamenti e tutto il munifico indotto che vi ruota attorno, dentro, sopra, sotto. E, allora, che i Governi nazionali si facessero forza e indirizzassero quote veramente consistenti di denari nelle casse di organismi di controllo terzi, quale è la Wada. Al di sopra, sin qui almeno, di ogni sospetto e di ogni illazione. E provvedessero a considerare il doping per quello che è. Un reato. Noi, in Italia, e stavolta gonfiamo anche un po’ il petto, lo abbiamo fatto già dal 2000. Magari riportando vittorie di Pirro, di fronte ad un nemico così soverchiante e subdolo. Ma noi siamo già partiti. Molti altri no. E, almeno stavolta sarebbe bastato che gli altri copiassero noi. Si sono già arresi. Meglio l’ipocrisia del “va tutto bene madamalamarchesa”. E, intanto, non disturbiamo le galline dalle uova d’oro. Facendosi sponda l’un l’altro. Tanto “se lo fanno gli altri, io che sono scemo?”. Sì. Ma, soprattutto, sei un criminale.
Daniele Puppo
Napoletano, 44 anni, giornalista professionista con 17 anni di esperienza sia come giornalista che come consulente in comunicazione. Ha scritto di politica ed economia, sia nazionale che locale per diversi giornali napoletani. Da ultimo da direttore responsabile, ha fatto nascere una nuova televcisione locale in Calabria. Come esperto, ha seguito la comunicazione di aziende, consorzi, enti no profit e politici. Da sempre accanito utilizzatore di computer, da anni si interessa di internet e da tempo ne ha intuito le immense potenzialità proprio per l'editoria e l'informazione.
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