Il 23 aprile del 2015 l’ONU pubblica il suo terzo rapporto sulla fellicità mondiale, Word Happiness Report, secondo il quale la Svizzera sarebbe il Paese con il più alto tasso di felicità sulle 158 nazioni recensite. L’Italia si collocherebbe ad un dignitoso 50° posto, mentre la Grecia – e non c’è da stupirsene – crolla alla 102° posizione. Ancora con poco stupore scopriamo che le nazioni sub sahariane occupano gli ultimi posti della classifica.
Tutto fin troppo scontato. Difficile da capire è invece il metro con cui misurare la felicità. Grandi nomi, esperti di economia, psicologia, statistica, sanità e politica, di prestigiose università americane e inglesi hanno elaborato i parametri attraverso cui misurare il grado di felicità di un paese. Eppure se per un ricco, sia esso persona o Paese, la felicità è rappresentata da certe caratteristiche, per un povero il discorso cambia notevolmente. In un deserto anche un bicchiere d’acqua pulita può offrire un momento di felicità subliminale; a Losanna, nei viali perfetti della città, accanto agli stagni che ospitano i cigni in un contesto di grassa ricchezza, trovare la felicità, quella vera, che non guarda solo agli aspetti economici o materiali, è tutt’altro discorso. La questione è dunque se sia davvero possibile elaborare dei parametri mondiali unici e universalmente validi per misurare un dato tanto indefinito.
Secondo il rapporto dell’ONU la felicità di un Paese e dei suoi abitanti sarebbe costituita in prima istanza da elementi quali il reddito pro capite, l’aspettativa di vita, la salute, il sostegno sociale, il livello di libertà percepito, la fiducia nel futuro e la liberalità. Eppure quando nel 1972 il Buthan, piccolo e povero paese montano a i piedi dell’Himalaya, propose la misurazione oltre che del PIL anche del FIL (Felicità Interna Lorda), i parametri a cui intendeva ispirarsi erano di natura assai diversa. Basandosi sul concetto che la felicità non possa derivare dal solo dato materiale, il Buthan misurava il Gross National Happiness (GNH) del proprio paese in base anche al dato spirituale ed emozionale, che il World Happiness Report arriva a considerare con difficoltà, perdendosi in una infinità di variabili.
Pertanto bisogna concludere che forse, al posto di felicità, sarebbe più appropriato parlare semplicemente di indici di benessere che il rapporto propone alle nazioni affinché queste possano migliorare le proprie politiche sia economiche che sociali.
Ma la felicità, quella vera di ogni singolo individuo, resta ben altra cosa.
Vania Amitrano
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