Parlava di “sciame virale” con “sorprese imprevedibili” la virologa Ilaria Capua, direttrice del One Health Centre of Exellence dell’Università della Florida. Di un “fenomeno epocale” diventato poi “un’onda inarrestabile” che nella foga e crudeltà ha provocato fino ad oggi più di 22 mila decessi, dei quali il 71% uomini, età media 81 anni. Erano gli inizi di marzo e nessun esperto aveva ancora azzardato questa raccolta così drammaticamente ricca di dati negativi, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, implementata dalla Protezione Civile con un giornaliero ‘bollettino di guerra’ che racconta una strage silenziosa di persone anziane morte quasi sempre nella più completa solitudine dagli affetti più cari.
Se c’è un tempo per tutto, per studiare, lavorare e produrre, per riflettere e agire. Se c’è il tempo scandito dall’alternarsi delle stagioni, delle fasi lunari, del giorno-notte, del sonno-veglia, c’è il fuori tempo – l’estemporaneo, l’improvviso – quello che sovverte l’ordine delle cose e può far tremare la terra come la stabilità della persona infondendole paura.
Il fuori tempo che da quasi due mesi ha rallentato pesantemente, anche in termini di economia, il normale ciclo vitale imponendoci riconsiderazioni modulate su rigori e divieti (anhe eccessivi) non fa soffrire tanto i bambini privati dei giochi all’aria aperta, né i giovani, abituati a coltivare via Skype, Zoom, Meet e quant’altro, amicizie e interessi, quanto piuttosto i nostri beneamati anziani. I più fragili, dal punto di vista della salute e non solo, ma ancora generosi perché disponibili a dare una mano dove necessita, anche con ritmi diversi, quelli della loro età. E’ tramontato il tempo in cui la senilità, l’ultima fase della vita dell’uomo, quella che più volgarmente chiamiamo vecchiaia, aveva ancora il profumo di saggezza e i capelli bianchi incutevano ancora un certo rispetto. E se dalla Cina, per un caso fortuito siamo riusciti ad importare il maledetto virus che da noi ha fatto strage, non siamo stati bravi però ad emulare quell’antica popolazione dell’Oriente che riteneva la vecchiaia “il paradiso della vita, tanta era la venerazione per coloro che, avendo percorso l’intera tappa, si avvicinavano al grande esame”. (Dino Buzzati, Cronache terrestri )
Oggi non c’è più posto per tutti nonostante il numero esiguo delle nascite metta in discussione il ricambio generazionale. C’è una popolazione di ultra-settantenni in grado di mettere in crisi il sistema sanitario nazionale. Questo, almeno, il quadro italiano, il Paese tra i più vecchi al mondo e il primo in Europa, con il 60 per cento della popolazione oltre i 40 anni, dove c’è un solo lavoratore ogni due pensionati. Concretamente, l’enorme crescita della popolazione anziana comincia ad essere considerata più un peso che una opportunità, a causa dell’onere sempre meno sostenibile che essa produce sia per il sistema sanitario che per quello previdenziale.
Per inquadrare la cruda realtà della situazione attuale, comune a tutta l’Europa, in tempi di pandemia da Covid 19 e di improvvisa necessità di posti letto di terapia intensiva, il Financial Times racconta dell’Nhs, il Servizio sanitario britannico, che ha assegnato ai pazienti una sorta di punteggio per decidere chi è unfit – inadatto – per accedere alla terapia intensiva. Tre le variabili di cui tenere conto: età, fragilità, condizioni pregresse. Ognuna di queste ha un punteggio: chi raggiunge il massimo di otto punti non deve essere ricoverato. Risulta quindi che i 70 anni sono un traguardo ragguardevole molto vicino al ‘limite’ dello sbarramento, mentre ad un paziente tra i 71 e i 75 -quattro punti per l’età + tre per l’indice di fragilità e almeno un altro punto se solo soffre di ipertensione arteriosa, pur se tenuta a bada con il farmaco ad hoc – con il massimo del punteggio deve essere precluso l’ingresso nel reparto ospedaliero riservato al ricovero di pazienti in gravi condizioni di salute, che necessitano di trattamenti, monitoraggio e supporto continui, allo scopo di mantenere nella norma le loro funzioni vitali.
“Stiamo abbandonando gli anziani perché le loro vite non valgono quanto quelle dei giovani “, denuncia la conservatrice Ros Altmann, ex ministro per le Pensioni sotto Cameron e membro della Camera dei Lord. Intanto il governo britannico è sotto accusa per la non tracciabilità delle morti nelle case di riposo: sono negate loro le cure, ma anche un posto nelle statistiche delle vittime. Come se non solo avessero perso il diritto alla vita, ma non esistessero proprio.
Anche la Svezia, considerata dagli anni ’60 il paese europeo più emancipato, ha adottato una linea di sbarramento per l’ingresso alle cure più costose e impegnative. Un documento del Karolinska Institute di Stoccolma, reso noto dal quotidiano Aftonbladet, specifica che resta fuori dalla T.I. chi ha oltre 80 anni, chi ne ha più di 70 e una malattia importante e chi ha fra i 60 e i 70 e almeno due malattie tra quelle cardiache, polmonari e renali. Ovviamente la selezione avviene solo in mancanza di posti letto, precisa il responsabile della Sanità svedese. Vale a dire che ora, al tempo della pandemia, “la Svezia sta sacrificando gli anziani”, come denuncia l’epidemiologo Marcello Ferrada de Noli che ha lavorato al Karolinska. In un comportamento del genere “è difficile non leggere le implicazioni eugenetiche: il ‘gregge’ sopravvivrà, ma affinché ciò accada i membri più ‘deboli’ della società devono essere sacrificati”, commentano gli antropologi.
Anche la Francia ha scatenato non poche polemiche con la sua scelta di concedere per decreto l’uso a casa e nelle RSA del farmaco Rivotril, usato come palliativo per la cura dei malati terminali: la somministrazione di questo farmaco a pazienti affetti da Convid-19 ha l’effetto di portare a una sedazione terminale che provoca la morte.
Invece la Spagna che con il numero di morti da Covid-19 è riuscita a superarci, lo ha messo per iscritto: si sconsigliano ‘cure invasive’ a chi ha superato gli 80 anni ed ha patologie pregresse.
Belgio Olanda e Belgio non ricoverano gli anziani affetti dal coronavirus perché secondo loro morirebbero comunque.
E’ quindi verosimile il dato diffuso dalla London School of Economics: la metà di tutti i decessi da Covid-19 in Europa è avvenuta nelle case di cura. In Italia, Spagna, Francia e Belgio tra il 42 e il 57 per cento dei decessi. Più di ottomila solo in Spagna, la metà delle vittime totali. Lo chiamano ‘geriatricidio’ ed è solo “questione di mentalità dominante, non di magistratura democratica che ora indaga e ispeziona le case di cura dell’Italia del nord (Trivulzio e non solo, ndr). È una sorta di eutanasia sociale, di senicidio, di triage su larga scala per cui è considerato sbagliato chiedere per sé il respiratore se si è “vecchi e malati”, scrive Giulio Meotti su Il Foglio.
In Italia “la morte e la vita in Italia stanno combattendo un duello in cui la prima sembra avere il sopravvento, una situazione apocalittica”, dichiarava nell’ottobre del 1995 l’allora vescovo di Vicenza, monsignor Pietro Nonis. Una battaglia che allora non era certo per fermare un’epidemia, ma già denotava l’invecchiamento rapido della popolazione italiana. Venticinque anni dopo, virus e vecchiaia sono invece uno accanto all’altra. A volte si fronteggiano come duellanti, se è vero che i medici della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) hanno spiegato in un documento che, a fronte dell’epidemia in corso e in caso di ulteriore peggioramento, sarà inevitabile il sacrificio di molte persone a causa dell’età e della loro fragilità. “Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”, scrivono. Poi, intervistati singolarmente hanno spiegato che non si sono mai trovati ad operare la scelta se dare la precedenza a un giovane rispetto ad uno meno giovane perché i posti di terapia intensiva sono stati nel frattempo accresciuti.
L’epidemia da Covid-19 ha mostrato più che la fragilità della società italiana, l’ipocrisia di non prendere decisioni organizzative generali ma di lasciare tutto sulle spalle dell’ultimo anello della catena: il medico curante.
A.B.
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