“Non fu repressione”. Il ministro della Difesa Cinese Wu Qian, interrogato sul prossimo trentennale della repressione nel sangue della protesta degli studenti, a piazza Tienanmen, è stato più che categorico: “Non sono d’accordo per l’uso della parola ‘repressione’. Penso che in questi ultimi 30 anni, lo stabile processo di riforme e di sviluppo, e i risultati che sono stati raggiunti siano la risposta a questa domanda”. La questione che gli era stata posta era se l’Esercito di liberazione popolare avesse in programma di commemorare gli eventi del 4 giugno 1989.
Di quel bagno di sangue di cui ancora oggi non si conosce l’esatta entità in numero di morti, feriti, imprigionati, espulsi, il Governo di Pechino ne parla mal volentieri, anzi preferisce non parlarne affatto e perseguire quanti vogliono tenere vivo il ricordo di quei fatti tremendi.
Mentre si avvicina il 30° anniversario, Amnesty International ha denunciato nuove persecuzioni ai danni di coloro che cercano di conservare il ricordo della tragica notte in cui la protesta pro-democrazia degli studenti in piazza finì nel sangue. Nelle ultime settimane, sottolinea l’organizzazione per i diritti umani, la polizia ha arrestato, posto ai domiciliari o minacciato decine di attivisti, compresi i familiari delle vittime. Roseann Rife, direttrice delle ricerche sull’Asia di Amnesty International ha dichiarato: “Trent’anni dopo è davvero il minimo che le vittime e le loro famiglie ricevano giustizia. Invece il presidente Xi continua a praticare la stessa politica di chi lo ha preceduto: perseguitare coloro che chiedono la verità nel tentativo di cancellare la memoria del 4 giugno. Ha poi aggiunto: “Un primo passo in direzione della giustizia sarebbe quello di consentire finalmente, anche ai genitori ormai anziani che 30 anni fa persero i loro figli, di commemorare le vittime di Tienanmen”.
In Cina ogni riferimento alla repressione del 4 giugno 1989 continua a essere sistematicamente censurato. Chiunque cerchi di onorare le vittime lo fa a grande rischio personale e va incontro a minacce o arresti. Il governo cinese non impedisce che siano organizzate manifestazioni in ricordo degli eventi di Piazza Tienanmen, ma limita il più possibile le attività dei partecipanti, e censura quasi tutte le informazioni sull’argomento nei mezzi di comunicazione. Nelle settimane prima dell’anniversario i controlli aumentano, così come la sorveglianza dei vari dissidenti che vivono costantemente agli arresti domiciliari, relegati nelle loro abitazioni.
Ma è soprattutto online che la censura si fa più accanita. Gli aggiornamenti alla tecnologia sono stati sollecitati dalle nuove politiche introdotte dall’Amministrazione Cinese del Cyberspazio (CAC). Il gruppo è stato istituito, ed è guidato ufficialmente, dal presidente Xi Jinping. Il mandato della CAC è stato definito in un controllo ideologico sempre più rigoroso di Internet. La nuova prassi affianca alle classiche blacklist, che contengono elenchi dei termini vietati, i nuovi sistemi di intelligenza artificiale che rendono più rapida e accurata l’identificazione di immagini e contenuti sonori giudicati inappropriati.
Se le aziende falliscono nel censurare adeguatamente i contenuti incappano in pene severe. E’ così accaduto più volte che diversi grandi fornitori di servizi online in Cina abbiano subìto una sospensione del servizio, che rende per giorni inaccessibili i loro siti o inutilizzabili le loro applicazioni. Parimenti agguerrito l’atteggiamento nei confronti del singolo utente, qualora riesca a superare la censura; può infatti subire pene di vario tipo: da semplici multe sino alla detenzione.
Con una Cina ‘capitalistica’, sempre più competitiva e ricca nei confronti dell’intero pianeta prendere atto dell’incapacità di questo Paese a fare i conti con il proprio passato delude e preoccupa. Delude perché è patetico il tentativo di nascondere fatti e circostanze drammatiche. Preoccupa infine perché i metodi sono ancora oggi quelli di ieri. E quella negazione pende sulla testa del popolo cinese come una spada di Damocle con la quale, prima o poi, il Governo di Pechino dovrà fare i conti. Di fronte ai Cinesi e al mondo.
Elisa Rocca
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